giovedì 12 marzo 2015

I pioppi dell'Eridano


racconto di Giampiero Rorato



  
I cavalli correvano a branchi per l’ampia distesa, fermandosi di quando in quando a  bere e a rispecchiarsi agli acquitrini fiancheggianti l’Eridano. Erano cavalli di media statura, forse poco eleganti ma velocissimi, i più veloci di tutto il Mediterraneo. La loro fama correva di bocca in bocca in tutta la grande pianura e giù per la penisola, oltrepassando i monti e i mari, tanto da incantare Omero, il vate dei tempi antichi. E il cantore di Ettore e Ulisse non fu il solo a celebrarli; anche Alcmane, Pindaro ed Euripide conoscevano la fama che accompagnava questa razza tutta speciale di quadrupedi arrivata secoli prima dalla Paflagonia con Antenore e i Veneti in fuga da Troia in fiamme, una razza che si conservò inalterata per secoli, importata poi perfino in Sicilia da Dionisio e ricordata anche da Strabone, pure lui ammirato della loro straordinaria velocità. Ce n’erano dappertutto, da Adria ad Altino, da Opitergio a Este, da Equilio a Padova: tutta la pianura sentiva il rombo frenetico del loro galoppare quando, criniere e code al vento, correvano per le radure o lungo le sponde dei fiumi.




Vicino all’Eridano, il grande fiume che cingeva a sud la terra dei Veneti, numerosi branchi vivevano bradi nella piana disboscata e diversi esemplari erano stati anche domesticati. Un giorno, dal villaggio lambito dal fiume ove abili artigiani lavoravano da tempi immemorabili l’ambra che arrivava dai paesi settentrionali, un giovane cavaliere volle seguire la corrente del fiume per scoprire cosa c’era più in là.
Dove finisce il fiume c’è il grande mare dal quale provengono le navi dei Greci, gli dicevano gli anziani, ma lui voleva vederlo quel  mare, così come voleva sapere quello che c’era fra il suo villaggio e il mare. Il giovane aveva ascoltato tante volte le storie raccontate dai vecchi del suo villaggio e soprattutto quella, spesso ripetuta, del lungo viaggio compiuto dai suoi antenati partiti da una città che un esercito nemico aveva bruciato e raso al suolo e che dopo mille avventure erano sbarcati alle foci del Timavo. Da lì comincia la nostra storia in questa terra pacifica, dicevano gli anziani, e lui voleva conoscerla, non pago della vita del suo villaggio sperso nella pianura.





Un mattino partì in groppa al suo piccolo e veloce destriero guardando il sole che usciva allora dalla selva, correndo nell’aria fresca che gli accarezzava il volto. Non ci volle molto perché incontrasse un paesaggio diverso. Il fiume s’era fatto ancora più largo, il bosco si allontanava dalle rive, i cavalli correvano liberi nell’erba umida della piana, confondendosi poi con gli arbusti presso la selva. All’improvviso scorse un vecchio fermo ai piedi d’una lunga fila di pioppi che ombreggiavano il fiume. Fermati, pareva dire quell’uomo dalla lunga barba, mostrando alto il palmo d’una mano tremula, fermati e ascolta. E il giovane si fermò.
«Ascolta - disse allora il vecchio alzando la voce. - Qui non passa mai nessuno, ma ho giurato a questi alberi prima che Giove li facesse tali che avrei fatto conoscere al mondo la loro triste ventura.»
«Ti ascolto, vecchio», rispose il giovane incuriosito. Scese allora da cavallo e si accucciò ai piedi del vegliardo, lasciando il destriero libero di pascolare ai margini del fiume.
E quegli cominciò un storia che andava prendendo sempre più l’interesse del giovane: era un racconto ricco di nomi sconosciuti, di fatti mai prima sentiti, di vicende che riguardavano più gli dei che gli umani.




«Narrano antiche storie, tanto care a Esiodo, a Euripide, a Omero, a Parmenide che ce le tramandarono perché non venissero inghiottite dall’oblio del tempo - cominciò a dire il vecchio con una solennità e una lentezza che quasi impaurirono il ragazzo - che un giorno di molti anni fa Epafo, incontrando per le strade della Grecia il giovane Fetonte, sentì un improvviso rossore avvampargli il volto, mosso da grande invidia per la bellezza dell’amico e più ancora per le fantastiche storie che si raccontavano di lui. E, spinto da un insano desiderio di umiliarlo, mise pubblicamente in dubbio la sua paternità solare. Fetonte era orgoglioso dei suoi genitori, Elio e Merope, e non poteva accettare simile offesa. Conosceva le sue origini divine, doveva per forza essere figlio del Sole, altrimenti anni prima Afrodite, quando regnava su Pafo, non l’avrebbe rapito per averlo vicino, col pretesto di farlo guardiano notturno dei suoi santuari. Di Afrodite aveva un dolcissimo ricordo: nelle lunghe notti di veglia trascorse a Pafo, quella splendida dea aveva avuto con lui teneri atteggiamenti materni e, allo stesso tempo, congiungendosi a lui nelle notti illuni, gli era andata rivelando il mondo ultraterreno, introducendolo ai misteri della vita. Afrodite, pur sposa di Efesto e amante di Ares, aveva vissuto intensamente l’avventura col giovane figlio di Elio, invaghita di quel corpo perfetto, degno di posare per Fidia. E quando un giorno la dea era stata richiamata dal marito, anche Fetonte era tornato fra i suoi, portando con sé l’incanto di quelle notti che si prolungava nella languida luce dei suoi occhi cerulei. E non era più lui, come se sentisse di continuo la calda voce di Afrodite ch’era un richiamo verso i mondi misteriosi che sono al di là della vita. No, la meschina offesa di Epafo non l’accettava proprio. La madre gli suggerì allora il modo di mostrare a tutti quale fosse la sua progenie, chiedendo a Elio la grazia che più gli piaceva: essendo egli davvero suo padre non gliel’avrebbe infatti rifiutata.
Fetonte covava da molto un segreto desiderio e colse al volo l’opportunità che gli veniva offerta e domandò al padre di poter salire sul carro solare. Pur titubante per una richiesta così azzardata, Elio non poté rifiutare: Fetonte era suo figlio, avrebbe di certo seguito i suoi consigli e sarebbe riuscito a governare con perizia i cavalli alati. Il viaggio fu preparato con la collaborazione delle sorelle Eliadi che si prodigarono in mille raccomandazioni, ma quando un mattino il giovane salì sul carro di fuoco, i cavalli sentirono subito d’essere guidati da mani inesperte e si imbizzarrirono, precipitandosi in folli corse per le strade del cielo, finché il carro si rovesciò e Fetonte cadde nell’Eridano, inghiottito dai flutti del grande fiume. Le Eliadi subito accorse invano lo cercarono per giorni: il suo corpo era stretto nell’abbraccio d’Eridano e allora piansero disperate la morte dell’amato fratello. Zeus, mosso a compassione da quel pianto che saliva fino al cielo, trasformò le Eliadi in alti pioppi rimasti a vegliare il fratello affogato nelle acque del Po e le loro lacrime divennero luminosi chicchi d’ambra. Questi pioppi - diceva il vecchio mentre li indicava con la mano - hanno resistito millenni alla furia dei venti, alle esondazioni del fiume e del mare, agli sconvolgimenti della terra e ancor oggi li vedi svettare alti e solenni lungo le sponde dell’Eridano, in questo luogo chiamato Crespino, a perenne ricordo delle onde increspate del grande fiume, testimoni e protagoniste di quell’antica tragedia.»
Il racconto s’interruppe e il giovane cavaliere alzò lo sguardo su quella lunga fila di pioppi, con gli occhi umidi di pianto.
«Ma la storia non termina qui - riprese il vecchio dopo una sosta - perché le lacrime delle Eliadi, trasformate dagli dei in gocce d’ambra, fecero accorrere alle foci del Po, dalle cui acque spesso melmose sono sorte fra le braccia frastagliate del delta le isole Elettridi, innumeri navi greche a caricare l’élekton, proprio queste gocce che la gente d’un villaggio non lontano da qui lavora con grande bravura, per farle diventare ornamenti delle donne di Atene e ancor più delle dee dell’Olimpo.»





Il vecchio s’acquietò un istante ma riprese ben presto il suo dire per ricordare al giovane straniero che gli stava di fronte come in tutto il Mediterraneo e soprattutto in Grecia, da Corinto ad Alicarnasso, si pianse allora la morte del figlio del Sole, aggiungendo che essa è d’ammonimento a tutti i mortali, perché non dimentichino che la vita è breve e fragile come un soffio di vento e neppure i figli degli dei vi si possono sottrarre.
Poi abbassò il capo sulle ginocchia, come esausto dal lungo racconto e il giovane rimase a guardarlo attonito, mentre alle sue spalle quegli alti pioppi si cullavano maestosi alla brezza del mattino. Dopo un po’ risalì a cavallo ma non si diresse al mare, preferendo tornare al suo villaggio.
Vengono davvero quelle navi e il mio villaggio ne è testimone; è da noi che si lavora l’ambra, diceva fra sé, cercando di collegare il lavoro della sua gente alla lontana caduta di Fetonte.
Il tempo, nel suo lento incedere, ha pian piano ricoperto di terra quell’antico villaggio, tornato alla luce tremila anni dopo presso Fratta Polesine, dove gli antenati dei Veneti lavoravano e commerciavano ambra e metalli provenienti dalle fredde terre settentrionali e ancora pasta vitrea dai vivissimi colori, di origine mediterranea. Dalle viscere della terra sono emersi i frutti di quel lavoro artigianale già finissimo; ceramica e avori testimoniano gli stretti rapporti con le lontane popolazioni micenee, che qui venivano ad acquistare i tanti oggetti che uscivano dalle abili mani degli artigiani.
Il villaggio sorgeva sulle sponde del grande fiume, facilmente raggiungibile dal mare e dalla vasta pianura del Po. Poi, come il delta si andava spingendo via via nell’Adriatico, il centro dei commerci passò ad Adria che, a partire dal VI secolo, divenne porto frequentatissimo da navi greche ed etrusche e dai viaggiatori che percorrevano da una parte all’altra il continente europeo. Adria fu allora città cosmopolita, crocevia dei grande percorsi europei e mediterranei, luogo di incontri, di scambi e di integrazione fra genti diverse. Le navi correvano veloci dall’Adriatico all’Egeo, fra Adria ed Egina e proprio ad Adria i mercanti greci costituirono uno dei loro fondachi più importanti, collegato sia ad Altino che, più tardi, a Spira.
Tremila anni dopo, sciami di turisti passano veloci per quelle terre piatte dall’orizzonte lontano, interrotto solo da lunghe file di pioppi venerandi, e alcuni si dirigono oltre i monti di sabbia verso le sacche e gli scanni in fondo al delta, lì dove le acque del Po si confondono con quelle dell’Adriatico. Se ne vanno nelle quasi invisibili e minuscole lame si sabbia, lontane dal mondo abitato, nelle nascoste insenature che accolgono le barche dei turisti e nelle isole golenali e lagunari, a Boccasette, a Barricata, a Bastimento, intorno alla Sacca di Scardovari, guardando le palafitte dei pescatori e i tanti allevamenti di mitili che affondano nell’acqua tepida le loro calze ripiene. A volte  si spingono in mare puntando al largo con le loro veloci barche da pesca, ritornando magari con uno dei grossi tonni che indugiano in branco a metà del golfo adriatico, fra il delta del grande fiume e il Quarnaro. Oppure, mentre il sole estivo abbronza la loro pelle, guardano in lontananza il faro di Pila e le navi che salgono l’Adriatico verso Venezia, verso Trieste. Alcuni di loro sanno delle antiche navi greche che risalivano il fiume e sono stati a vedere la bella piazza che Crespino ha dedicato al giovane eroe che aveva perso la sfida con i cavalli del Sole. Storie antiche e nuove s’intrecciano lievi in quella terra silente e quelle antiche sono più ricche e affascinanti delle moderne, raccontando di uomini coraggiosi che correvano impavidi sui loro fragili vascelli per le rotte adriatiche e mediterranee e non temevano di misurarsi con gli dei e le forze avverse d’una natura spesso nemica, mossi dalla voglia di conoscere e conquistare il mondo.
Altri tempi, altre vicende, ma sempre in quella terra meravigliosa che s’insinua e quasi corrode l’alto golfo adriatico, dove si sono incrociati i destini degli uomini e degli dei, una terra dagli orizzonti sconfinati, da sempre legata all’Adriatico, al Mediterraneo e all’Oriente, scrigno prezioso e discreto di civiltà, immersa e quasi inghiottita nei vasti acquitrini del Delta, ove la gente, come canta Giovanna Modonesi, continua a fermarsi incantata




A vardar el sole
alvarse su da Po bonora
lu, ostia del Signore
su ’n’altare d’acqua corentiva
a in sul calar dla sira

dosfarse in spala a la risara sfogonà.