giovedì 17 luglio 2014

Il viaggio di Antenore da Troia a Padova

Le origini del Veneto e la fondazione di Padova
Un racconto di Giampiero Rorato



La città era avvolta dalle fiamme che s’alzavano alte in quella tragica notte e i vincitori, dopo anni di snervanti attese, sanguinose battaglie e centinaia di pire innalzate per bruciare i loro morti, sembravano impazziti.

 Avevano corso per ore tra gli accampamenti e la città, irrompendo dapprima per il varco aperto dai Troiani stessi per introdurre il cavallo di Ulisse, quindi per le porte abbattute, ed erano penetrati nelle case e nei palazzi di Priamo e degli altri notabili distruggendo e bruciando con rabbia quanto trovavano; avevano inseguito e ucciso il maggior numero di nemici; poi, aperti i loro otri, avevano brindato alla vittoria e quando ormai stava per spuntare l’alba s’erano finalmente acquietati nelle braccia di Morfeo.

Nelle stesse ore, dietro la città in fiamme, nel folto della selva che s’allungava verso le alture, gruppi di Troiani scappati alla strage cercavano nella notte familiari e amici per fuggire al più presto dal fuoco e dalla morte. E qualcuno fra i pochi anziani sopravvissuti all’eccidio, dopo aver combattuto e sofferto invano per difendere la patria, si sarà certamente chiesto se quanto stava succedendo fosse davvero voluto dagli dei e quale tremenda vendetta stavano essi consumando e per quali motivi. Forse nell’Olimpo non erano ancora paghi del devastante terremoto che qualche decennio prima aveva demolito dalle fondamenta la nobile città di Troia? Pur in mezzo all’oscurità della selva, sinistramente illuminata da lontani bagliori, quei fuggiaschi avevano ancora negli occhi l’assalto dei Greci, l’immane rogo e la terribile carneficina. La splendida capitale della Troade che s’innalzava superba non lontana dall’Egeo e dall’Ellesponto, sicura nelle sue possenti mura, ricca di risorse economiche e ancor più di giovani valorosi stava velocemente trasformandosi in un acre cumulo di macerie che il tempo avrebbe sommerso e cancellato per sempre.


Perché era successo tutto questo? I giovani troiani che avevano a lungo combattuto sotto le mura della loro città contro le preponderanti forze greche forse non lo sapevano, perché nessuno avrà detto loro che quella era una guerra che i Greci avevano combattuto per il pane, altro che Elena, Paride o Menelao! L’aristocratica e bellicosa casta che comandava a Troia pretendeva infatti una taglia da tutte le navi che entravano e uscivano dagli stretti e i Greci, che grazie a Giasone avevano scoperto che nella lontana Colchide il grano cresceva rigoglioso - quello era infatti il prezioso vello d’oro - e lo andavano a prendere con le loro navi perché in patria non allignava, dovevano pagare ai Troiani uno scotto sempre più pesante.

Fra gli anziani che una qualche divinità amica aveva salvato dalla morte e che in quella tristissima notte raccoglievano e organizzavano i superstiti c’era anche Antenore, il probo consigliere di Priamo e di Ettore, da questi molto stimato seppur poco ascoltato. Più volte aveva supplicato di aprire trattative con i Greci e di restituire Elena al suo legittimo sposo – rinunciare, cioè, a taglieggiare le navi di ritorno dalla Colchide - pena la distruzione della loro città. 

Troppo forte e potente è la coalizione greca per pensare di resisterle e di sconfiggerla, ripeteva, ma Paride era un giovane orgoglioso e aveva convinto la sua gente che aprire un tavolo di trattative con i Greci per la soluzione dei problemi sul tappeto e restituire Elena a Menelao, significava ammettere che Troia era  debole e incapace di sostenere e respingere l’assalto dei nemici. Nessuna nave può tornare dagli stretti, dicevano dunque i baldanzosi eredi della nuova dinastia dei potenti Troiani, se non scarica sulle nostre rive parte del grano di cui sono piene e per difendere questo diritto siamo pronti a combattere fino alla morte. E per molti, Ettore in testa, fu davvero la morte.


I vecchi, convinti anche loro del diritto del più forte, non erano riusciti a conservare la pace, garantendo continuità di vita alla loro giovane città e, fra pochissimi altri, anche il saggio Antenore aveva previsto il tragico sbocco di tanto superbo orgoglio ma invano e ora, al pari di Enea, era costretto a scappare nella notte dalla sua città in fiamme e dai Greci, vegliando sulla moglie Teano e i figli Elicaone, Polidamante e gli altri di minore età, mentre a lui guardavano centinaia di Troiani superstiti e gli alleati della Paflagonia, gli ardimentosi combattenti a cavallo rimasti senza re, caduto giorni prima in battaglia a difesa della città amica.
Costoro, conosciuti come Heneti o Veneti, erano accorsi col loro duce Pilemone alla chiamata dei Troiani, probabilmente subito dopo la morte di Ettore ed erano arrivati con i loro piccoli e veloci destrieri, quella “razza di indomite mule” cantata da Omero, tanto erano resistenti alla fatica e al lavoro. Poi Pilemone era morto in battaglia e nella notte della terribile sconfitta il suo popolo, impossibilitato a tornare in patria a causa di una rinsurrezione (Heneti, seditione ex Paphlagonia pulsi, Livio, Hist. 1,1), si era rivolto ad Antenore perché lo guidasse alla salvezza e a una nuova sede. E questi ne aveva assunto volentieri il comando e li porterà, come testimonia Tito Livio, «nel più interno golfo del mare Adriatico» (in intimum maris Adriatici sinum, Hist. 1,1.). E se l’indicazione non fosse ancora chiara lo storico si premura di precisare che «i Veneti e i Troiani, cacciati gli Euganei che vivevano tra il mare e le Alpi, ne occuparono le terre» (Euganeisque, qui inter mare Alpesque incolebant, pulsis Enetos Troianosque eas tenuisse terras, ivi.). Livio precisa pure, iniziando la sua Storia di Roma che «dopo la presa di Troia si infierì contro tutti i Troiani, fuorché due, Enea e Antenore, in favore dei quali e per un antico vincolo di ospitalità e perché essi erano sempre stati fautori della pace e della restituzione di Elena, gli Achivi rinunciarono a ogni diritto di guerra» (Iam primum omnium satis constat Troia capta in ceteros saevitum esse Troianos, duobus, Aeneae Antenorique, et vetusti iure hospitii et quia pacis reddendaeque Helenae semper auctores fuerant, omne ius belli Achivos abstinuisse, ivi.). 

E la storia sembra essere stata ancora benevola con Antenore se, come riferisce Virgilio, Venere, pregando Giove in favore di Enea, esclama:

«Qual limite, gran re, dunque tu poni
ai lor travagli? E poté pure Antenore,
sfuggendo al folto delle mischie achèe,
negl’illirici seni entrar sicuro
e fin nel cuore del liburnio regno;
poté varcare le fonti del Timavo,
onde per nove bocche in mar prorompe,
sì che ne tuona e ne rimugghia il monte,
e fiumana sonante i campi inonda.
E la città di Padova ei costrusse
per sede ai Teucri, e diede un nome ai suoi,
ed ivi alfine l’armi iliache appese;
lieto or riposa in placida quïete.»

(... Quem das finem, rex magne, laborum?
Antenor potuit mediis alapsus Achivis
Illyricos penetrare sinus atque intuma tutus
regna Liburnorum et fontem superare Timavi,
unde per ora novem vasto cum murmure montis
it mare proruptum et pelago premit arva sonanti.
Hic tamen ille urbe Patavi sedesque locavit
Teucrorum et genti nomen dedit armaque fixit
Troïa, nunc placida compostus pace quiescit...)
[Eneide, 1, 241-249, trad. Guido Vitali, Mursia 1986]

La storia delle origini dei Veneti e del Veneto è dunque la storia di un viaggio oltre il mare, l’esodo lungo e difficile di un popolo che, abbandonata la patria sulle sponde meridionali del Mar Nero, dopo aver combattuto a fianco dei Troiani perdendo il re, impossibilitato a tornare in patria, aveva fatto propria la sconfitta degli alleati e s’era dato a uno dei capi dei vinti per cercare la salvezza e una nuova patria. 

Ancora una volta dunque il riscatto passa attraverso un viaggio iniziatico sulle acque e oltre le acque ed è proprio un viaggio verso l’ignoto che porta alla rinascita della stirpe Heneta, aprendo ad essa scenari nuovi che si prolungheranno nel tempo verso un futuro di cui non si vedono i limiti. Storia affascinante e misteriosa, non cantata da alcun poeta, come invece toccò in sorte al pio Enea e al suo nemico Ulisse, così come anni prima il mito aveva cantato la nascita delle isole incastonate nel golfo del Quarnero.


Gli storici non raccontano quale sia stata la via percorsa da Antenore e dai Veneti per giungere dall’Asia Minore al golfo più interno del mare Adriatico. È tuttavia presumibile si sia trattato di una via marittima, la stessa percorsa in antico dagli Argonauti inseguiti da Apsirto, e decidendo poi di occupare la regione già abitata dagli Euganei avranno dovuto sbarcare lungo la costa occidentale, magari alla foce o poco all’interno di uno dei tanti fiumi che attraversano la regione, forse il Po, l’Adige o il Brenta. 

Ma quelle coste, come annota Tito Livio, erano impetuosa italica litora (X, 2,4) a causa dei forti venti di scirocco e di bora che soffiavano spesso minacciosi lungo la costa occidentale, mentre le sponde orientali conoscevano già allora e ancor più nei secoli seguenti un continuo andirivieni di navi greche che approdavano a Lesina, Lissa, Faro e Nesazio. Ma gli stessi navigli greci arrivavano da epoche lontane anche alle foci del Po e lo risalivano per acquistare i gioielli d’ambra, lavorati nei villaggi lungo il fiume, nei pressi di Fratta Polesine.

Maurus Servius Honoratus, commentando Virgilio, afferma con sicurezza che Antenore e i Veneti sbarcarono nella Venezia ed è infatti a quest’epoca che risalgono gli empori di Adria e di Spina, principali punti di riferimento nell’alto Adriatico per le attività commerciali dei Greci, come hanno mostrato gli archeologi che vi hanno rinvenuto ceramica attica e altri oggetti di provenienza micenea. O forse, come racconta lo stesso Virgilio, lo sbarco era avvenuto alle foci del mitico e misterioso Timavo, ai piedi del Carso, lì dov’era giunto anche Diomede, carico di gloria e avvolto dal benvolere degli dei, fatto lui stesso dio.

Quegli antichi fuggiaschi, «cui fu dato il nome di Veneti» (gens universa Veneti appellati, Hist.1,1), potrebbero anche aver percorso una via diversa, tra mare e terra, per non incappare nelle navi dei Greci che, specie nelle settimane successive alla vittoria, solcavano di continuo l’Egeo e quindi è possibile si siano dapprima diretti da Troia ancora in fiamme verso nord-est, attraverso le boscaglie che coprivano la regione, e, giunti al Mar Nero, averlo navigato sino alle foci del Danubio. Da qui, dalle regioni del Ponto, seguendo lo stesso percorso attribuito agli Argonauti e ai loro inseguitori, avrebbero potuto risalire prima il Danubio poi la Drava per giungere alle Alpi e scendere infine alla pianura, fermandosi definitivamente nelle fertili terre tra la Livenza e il Po.

Al di là delle molte supposizioni e delle leggende spesso fantasiose è ormai certo che i Paflagoni e un gruppo di Troiani, chiamati poi tutti col nome di Veneti, sono partiti con Antenore da Troia dopo la conquista e l’incendio della città ad opera della coalizione greca comandata da Agamennone, tra il XIII e il XII secolo avanti Cristo, in quello che è stato un periodo ricco di avvenimenti e di grandi migrazioni, quando i popoli del mare, ricordati dai geroglifici egiziani, tentarono di invadere anche l’Egitto ed è proprio da allora che si cominciano a individuare i primi nuclei etnici che danno vita alla protostoria italica. 

In questo vasto e complesso scenario che interessa il Mediterraneo e il vicino Oriente si muovono anche i Veneti che, arrivati dopo un lungo peregrinare nella pianura a ridosso dell’alto golfo adriatico e delle Alpi, si concentreranno soprattutto in alcuni insediamenti, i maggiori dei quali sono Adria, Altino, Asolo, Belluno, Este, Làgole e Valle di Cadore, Montebelluna, Oderzo, Padova, Treviso, Vicenza, spingendosi fino a Caporetto e Santa Lucia in Slovenia, tutti luoghi nei quali sono emersi resti di abitati, necropoli e santuari innalzati alle loro divinità, soprattutto a Reitia, ma anche Artemide Etolica, i Dioscuri, Ercole, Gerione, Ob e Diomede. In tutti questi luoghi hanno creato le loro prime città e i loro villaggi, continuando ad allevare i cavalli portati dalla lontana Paflagonia, disboscando pezzi di terra per coltivare il grano e altri cereali; iniziando poi a commerciare da una città all’altra, dai lidi adriatici fino alle Prealpi, dalla Livenza al Po e ancora più in là.  

Antenore, la saggia guida dei Troiani superstiti e degli Heneti di Paflagonia, si fermerà nel cuore della fertile pianura lungo le sponde del fiume Bacchiglione e lì, dando inizio alla colonizzazione della regione, farà sorgere la città di Padova, appendendo nei templi le antiche armi troiane. Finalmente è arrivata anche per questa torma di fuggiaschi mediorientali la pace e il vecchio eroe e i suoi compagni potranno riposare e godere i tanti doni d’una terra ferace.


Attraverso la storia delle loro origini, i Veneti confermano dunque l’antichità d’un legame che lega l’Occidente all’Oriente e questo popolo che mille anni più tardi si unirà e confonderà con quello romano, restando comunque veneto, possiede già una cultura che nasce da una complessità di radici. È una cultura pienamente mediterranea, connotata in più da quell’atto liturgico di Antenore che, radunato il popolo nel tempio, donò agli dei e per sempre le vecchie armi dei suoi guerrieri divenuti agricoltori, preferendo da allora in poi costruire case, allevare animali, seminare e raccogliere il grano e forgiare falci ed aratri per il pacifico lavoro dei campi. 

Ed è una cultura ove confluiscono i contributi non solo della civiltà greca e anatolica, ma, come riconoscono gli studiosi, anche di quella caldea e assiro-babilonese e quindi cultura che è anche compiutamente orientale, entrata stabilmente nei cromosomi dei Veneti, patrimonio ricco e prezioso cui si aggiungeranno poi tanti altri contributi, quelli di Roma, dei Goti, dei Longobardi, dei Bizantini e altri ancora, e, come la Repubblica di Venezia insegnerà nei suoi mille anni di storia, l’attenzione all’Oriente e all’altro da sé e un cosmopolitismo ampio, aperto e solidale resteranno connaturati per sempre alla civiltà di questo popolo.