lunedì 28 gennaio 2013

L’Olio d’Oliva alla conquista del Nord Italia

Intervento di Giampiero Rorato a Olio Officina Food Festival
Milano, 26 gennaio 2013


Un'immagine scattata durante il mio intervento (foto di Cinzia Tosini)


Questo mio intervento – come ricorda il titolo - non è dedicato alla storia o alle caratteristiche dell’olio d’oliva e, per i tempi più recenti, all’olio extravergine d’oliva, quanto a conoscere quando è arrivato nel Nord Italia e se vi è arrivato davvero, con un significativo accenno a Milano, ma con particolare riferimento al rapporto che la Repubblica di Venezia e il suo territorio hanno avuto storicamente con questo prodotto.



Quello indicato è un tema molto vasto, per cui ho ritenuto di fermarmi in poche tappe e su pochi aspetti, che ritengo comunque sufficienti per mostrare come i tempi siano stati molto lunghi perché l’olio d’oliva riuscisse dall’Italia centro-meridionale salire fino alle cucine e alle tavole del Nord Italia, senza tuttavia conquistarle ancora interamente, anche se, in alcune aree, come a Venezia, l’olio d’oliva era abbastanza presente fin dal Medioevo, ma, come vedremo, per scopi diversi da quello alimentare.



Ho ritenuto di iniziare questo mio viaggio da Plutarco, biografo, scrittore e filosofo greco, vissuto tra a il 46 e il 127 circa d.C. sotto l’Impero Romano, di cui. Come scrittore, la sua opera più nota sono le Vite parallele, biografie dei più famosi personaggi dell’antichità ed è da una di queste, dedicata a Giulio Cesare, che inizia la mia conversazione.

Nel capitolo 17 della vita di Cesare, Plutarco così scrive: “Della temperanza di Cesare nel vitto gli storici riportano questo esempio: quando a Milano Valerio Leone, che l’ospitava, lo invitò a pranzo e gli servì asparagi conditi con unguento aromatizzato anziché con olio, egli ne mangiò tranquillamente e, successivamente, criticò gli amici che erano con lui perché disgustati da quel piatto. «Bastava – egli disse loro – non mangiare ciò che non piaceva; chi ha da ridire su questa rusticità è egli stesso rustico.»”.

Nel testo greco è scritto “unguento aromatizzato”, per indicare un grasso di origine animale, quasi certamente, come risulta da altri testi, burro aromatizzato

L’episodio, raccontato da Plutarco ci rivela due cose importanti.

Innanzi tutto che l’abitudine romana era di condire gli asparagi con l’olio d’oliva mentre gli asparagi serviti a Milano a Giulio Cesare erano conditi con burro, a conferma che a Milano – a differenza di Roma e delle regioni dell’Italia centro-meridionale - in cucina e a tavola non si usava l’olio ma grassi animali.

In secondo luogo Cesare stesso, conversando successivamente coi suoi compagni, definì “rustico” un piatto siffatto, cioè popolaresco, adatto ai pecorai e ai contadini del tempo che producevano il burro in casa o che usavano il grasso del maiale, e non adatto ai patrizi romani che si facevano arrivare i prodotti a loro graditi anche da molto lontano.

Ma a Milano no, in quei secoli si impiegava in cucina – anche nelle cucine dei ricchi - quello che si trovava nel territorio, quindi niente olio ma burro o lardo o strutto. E, come a Milano, ciò accadeva in tutto il Nord Italia.

Desidero aggiungere che del burro parla già nel V sec. a C: Ippocrate, il padre della medicina, attribuisce l’origine della parola “boutiron” agli Sciti, che ne sarebbero stati i primi produttori, soprattutto per spalmare il corpo.

A sua volta nella "Naturalis Historia" Plinio il Vecchio scrive che dal latte si ricava il burro e che questo è l’alimento più raffinato, e non soltanto un condimento, dei popoli barbari: un prodotto alimentare il cui consumo distingue i ricchi dai poveri. Il burro, condimento di lusso e grasso di élite dei popoli settentrionali, definiti "barbari", si contrappone dunque all’olio d'oliva in uso presso i Romani e i Greci, definiti, sempre da Plinio, popoli "civili".

Oltre a questa contrapposizione tra barbari e civili si precisano gli usi non nutrizionali del burro. Ancora Plinio ricorda che il burro ha attività protettive dai raggi solari e dall'umidità, per molti versi peraltro simili a quelle dell’olio. Se i barbari hanno l’abitudine di spalmarlo sulla pelle, Plinio ricorda che "anche noi lo facciamo con i nostri bambini". A Roma, infatti, il burro era reperibile, ma per usi diversi da quelli alimentari, mentre a Milano rappresentava allora, e lo sarà ancora per molto, il condimento principe d’ogni piatto.


Foto scatatta da Cinzia Tosini


Facendo un salto di circa due millenni, prendiamo un fortunato trattato di cucina, uno dei più famosi e ancor oggi consultato da cuochi e gastronomi: Il Carnicina, curato da Luigi Veronelli, e uscito in prima edizione da Garzanti nel 1961. In questo celebre trattato, Luigi Carnicina (1888-1981), grande chef, collaboratore di Auguste Escoffier e riconosciuto maestro di cultura gastronomica, presenta 33 ricette tra risi e risotti e tutte, salvo pochissime eccezioni, impiegano nel fondo di cottura il burro e non l’olio.

Pochi anni dopo esce un altro trattato che ha goduto e gode di molta fama, ancor più del precedente: Le ricette regionali italiane di Anna Gosetti della Salda, dato alle stampe per la prima volta dalla Casa Editrice milanese Solares nel 1967.

Nella parte dedicata alla Lombardia, lì dove si parla di piatti a base di riso, troviamo 24 ricette. Ebbene, quasi tutte prevedono il burro come fondo di cottura, come anche, a volte, lo strutto e il lardo, ma di olio non si fa cenno. E siamo, ripeto, mica nel Medioevo, ma nel 1967.

Se dalla Lombardia passiamo in Veneto, troviamo elencate in questo medesimo volume 32 ricette a base di riso quasi tutte aventi come fondo il burro, mentre solo qualcuna prevede l’utilizzo dell’olio d’oliva.

Anna Gosetti aveva rilanciato e diretto dal 1952 al 1981, quindi per una trentina d’anni, La Cucina Italiana, una rivista ben conosciuta e ancor oggi capillarmente diffusa, per cui, realizzando e dando alle stampe il suo ponderoso libro di ricette, storicamente datato ma ugualmente ricercato e giunto ora alla 17ª edizione, avrà sicuramente attinto a cuochi di alberghi e di case nobiliari e borghesi, per cui il panorama che presenta si può considerare lo specchio della realtà migliore all’inizio della seconda metà del secolo scorso, all’incirca 50 anni fa.

Una quindicina d’anni dopo, nel 1980 esce da Mondadori un interessante trattato gastronomico, ricco di note e commenti, intitolato “Il Cuoco gentiluomo”, scritto dal visconte Livio Cerini di Castegnate, (1918-2012), personaggio straordinario nel mondo del collezionismo d’arte, bibliofilo di gastronomia e intelligente gastronomo lui stesso.

Nel capitolo, che mi pare molto emblematico, intitolato “Grassi vegetali” Livio Cerini scrive: «L’olio vergine d’oliva è il Re! Tutti sanno che l’olio di oliva non è solo di oliva, ma è mescolato a olii di semi vari (e la legge lo consente….). L’olio di semi è olio di semi diversi e talvolta dichiaratamente di un solo seme, ma io ci credo pochissimo. L’analisi degli olii è cosa da laboratorio e anche in quella sede non è facile.

Il consumatore non potrà mai in pratica controllare quello che compera. L’olio d’oliva può essere di prima spremitura a freddo e su olive scelte e avremo il non puls ultra, può essere di seconda a caldo, di terza su olive cadute e guaste e infine avremo l’olio di sansa estratto con solventi tipo solfuro di carbonio e altri e qui andiamo maluccio.

L’industria dell’olio è comunque su questa strada da oltre un secolo, basterebbe operare con serietà e onestà e non ci sarebbe nulla di male.

L’olio vergine di oliva è l’optimum per condire insalate crude e cotte e ne parlerò a lungo nel capitolo delle insalate.

Quest’olio può essere più o meno lavorato; se proviene da un frantoio artigianale della Toscana sarà un’esasperazione di verginità, avremo un olio con riflessi verdi, profumato e sapido fatto per il buon intenditore, che lo assaggerà intingendovi semplicemente il pane. Ma attenzione, tale olio non dura a lungo e va quindi consumato presto. Pertanto per la cucina, in pratica, è meglio un olio vergine di prima spremitura, ma parzialmente lavorato.

Anche se lavorato, tuttavia, un olio vergine non sarà mai l’ideale per friggere e cucinare normalmente; in questi casi è meglio un olio raffinato e non vergine e cioè ufficialmente mescolato a olii di semi. Non c’è nulla di male: sono gli olii che consumiamo tutti i giorni.

Se poi vogliamo friggere in massa pesciolini, crostacei, tante cose di mare e poi ancora patatine, frittelle, fiori di zucca, in un bel padellino di ferro, allora un olio dichiaratamente di semi sarà ancora meglio. Vi sono seri motivi che interessano la struttura molecolare degli acidi grassi costituenti gli olii, a determinarne la scelta, ma non è neppure il caso di parlarne.»

E a proposito delle insalate, Livio Cerini si sofferma sul loro condimento ideale, che è, scrive, il “pinzimonio” e qui torna a discutere di olio e scrive: «L’olio dev’essere anzitutto di marca e di una casa seria, se di produzione industriale, se invece è di produzione locale e, diremo, artigiana, bisogna acquistarlo all’origine e quasi vederlo spremere con i propri occhi.

Gli olii di frantoio e non raffinati sono decisamente i migliori e interessanti al gusto, ma si conservano meno bene e comunque, per mantenersi, richiedono cure particolari, che non tutti possono dare.

Certo, un olio genuino, naturale e di recente spremitura, proveniente da olive selezionate, può dare un’insalata superlativa e, per la verità, le mie predilezioni pendono da questa parte, però ho avuto occasione di gustare ottime insalate anche con olii decisamente commerciali.»

Fin qui, le parole di Livio Cerini.

Dico subito che dissenti da diverse sue affermazioni, anche perché il nobiluomo lombardo, gastronomo e cuoco lui stesso, nonché accademico d’onore della cucina italiana, aveva dell’olio d’oliva scarse ed errate conoscenze, eppure da quando scrisse il suo ben noto trattato di cucina, non è passata un’eternità ma meno di 35 anni.

E qui ribadisco che l’olio extravergine d’oliva, prodotto oggi in Italia da tante stupende aziende olearie, da olive italiane, non ha assolutamente confronti con troppi altri oli in circolazione nel nostro Paese.

Forse le non condivisibili affermazioni dell’accademico Cerini di Castegnate possono trovare una loro comprensione, ma non giustificazione, anche nel fatto che, pur producendosi olio extravergine negli uliveti che s’affacciano sulla Riviera bresciana del lago di Garda e in qualche altro luogo, la Regione Lombarda fino a poco fa non aveva incluso il proprio olio extravergine tra i prodotti tipici regionali, a differenza, ad esempio, del Veneto dove si producono degli oli extravergini d’oliva DOP nel veronese e nella riviera del orientale del Garda, lungo la Lessinia, nella Pedemontana vicentina, nei Colli Berici, nei Colli Euganei, alle pendici del Grappa e nella Pedemontana Trevigiana.

Come dire che l’olio d’oliva non era – e in parte non lo è ancora – granché considerato in troppe realtà del Nord Italia.

A comprova, aggiungo che, per personale diretta conoscenza, in diversi ristoranti lombardi, anche pluristellati, la quantità di burro impiegata in cucina è ancor oggi di gran lunga superiore alla quantità di olio d’oliva.



Lungo questo millenario percorso – dall’antica Roma ai tempi nostri – che posto ha occupato l’olio d’oliva nel Nord Italia?

Riandando ai secoli passati, mi soffermo a Venezia, città esemplare sotto questo profilo, anche perché gli accenni che seguono ci fanno capire come era valutato l’olio d’oliva anche in una città che ne importava in grande quantità.

Il Libro per cuoco, scritto da uno sconosciuto autore veneziano o veneto tra la fine del ‘300 e l’inizio del 400, sulla scia dei trattati gastronomici meridionali, contiene 135 ricette scritte in lingua veneta del tempo, alcune delle quali ancora pienamente in uso. Quel trattato richiama frequentemente l’uso del lardo e dello strutto, mentre molto più raro è il ricorso all’olio o, come scrive l’autore, al bono oglio, con manifesta allusione all’uso di oli meno pregiati che nell'Italia settentrionale surrogavano lo schietto olio d'oliva.

In questo antico trattato gastronomico veneto l’olio d’oliva compare 9 volte; il grasso animale 17 volte, il lardo 32 volte e lo strutto 2 volte, in pratica il grasso di origine animale è usato in 51 ricette su 135 (dolci compresi) mentre l’olio solo 9 volte. Dunque, nella città dogale, sul finire del Medioevo, nel 42% delle ricette si contemplava l'uso del lardo, contro solamente il 7% in cui si faceva riferimento all'olio .

Come ha ampiamente documentato Salvatore Ciriacono [in Alimentazione e Nutrizione, secc. XIII – XVIII, a cura di S. Cavaciocchi, Le Monnier, Firenze, 1997], in quel tempo, di olio a Venezia ne arrivava molto, dall’Istria, dalla Dalmazia e dalla Puglia, ma era scarsamente usato dal punto di vista culinario sia nelle case patrizie e, naturalmente molto meno, in quelle del popolo e in entrambi i casi quasi esclusivamente per motivi di illuminazione e lo scarso o nullo impiego in cucina era dovuto al fatto che gli interessi dei veneziani per l’olio erano ben altri.



L'olio, come si legge nei documenti del tempo fra cui le spese alimentari delle famiglie patrizie, si intrecciava solo in minima parte con la storia dell’alimentazione della città e dello stato veneziano, dal momento che il suo arrivo in laguna era infatti finalizzato a rifornire due settori significativi delle manifatture cittadine, vale a dire il saponificio e l’industria laniera. In queste due attività il fabbisogno in olio era rilevante, e determinante in termini di qualità, nel processo di produzione del sapone, costituendo circa 1/3 del peso finale del prodotto.

Nel 1489 Venezia monopolizzava ormai la produzione di sapone, che vantava un’indiscussa superiorità rispetto ai prodotti concorrenti, in termini di bianchezza e durezza, tanto da proibirne la produzione al di fuori della città, concentrandone l’attività nei suoi soli saponifici, che, agli inizi del 1600, ammontavano a 17 unità, con 40 caldaie attive.

L’altro segmento industriale, non meno significativo nel quadro delle industrie veneziane, era il lanificio, in grande espansione nel corso del 1500. Nel processo di cardatura, l'’lio, sebbene non della stessa qualità di quello usato nell’alimentazione, non si rilevava meno necessario.

A seguire le illuminanti vicende dell’olio nella Repubblica di Venezia si capisce anche perché l’olio ebbe difficoltà a imporsi nella ristorazione familiare e nelle locande del tempo.



L’olio era infatti un prodotto importante, anzi, fondamentale per le due attività produttive menzionate e la sua importazione a Venezia era in grado di soddisfare una domanda che superava certamente i confini dello stato, per cui venne posto ben presto sotto controllo dalle autorità annonarie veneziane, come prevedeva la tradizione legislativa della città.

Come abbiano detto, nel corso del Cinquecento ad essere acquistato dai mercanti veneziani era soprattutto l’olio pugliese (il migliore per qualità, durata nel tempo, e il più richiesto dai mercati internazionali, per cui il suo controllo in termini politico-economici stava a riflettere la forza di una potenza commerciale come era Venezia nel Cinquecento), ma nel Settecento la situazione risultava ribaltata. L’olio pugliese sarebbe sfuggito in larga misura al controllo veneziano e sarebbe caduto nelle mani delle maggiori potenze coloniali dell’epoca, Francia, Inghilterra, Olanda Come dire che attraverso il commercio dell’olio si può ricostruire la storia economica di Venezia, ma non la sua cucina, dal momento che l’olio in cucina era pochissimo usato, probabilmente il piatto che lo richiedeva obbligatoriamente era solo il baccalà mantecato.

In sostanza, a Venezia – nel lungo millennio della sua gloriosa storia di grande potenza - di olio d’oliva ce n’era in abbondanza, ma non era usato nell’alimentazione bensì nell’industria del sapone e in quella della lana.



Torniamo, per concludere, ai tempi nostri, ai tre autori prima ricordati, Luigi Carnacina, Anna Cosetti della Salda e Livio Cerini di Castegnate. Luigi Carnicina e Anna Cosetti possono essere considerati il punto estremo d’una storia, quella del burro, del lardo e dello strutto in cucina nel Nord Italia; mentre Livio Cerini è – col suo volume uscito nel 1980 - all’inizio della nuova storia, quella che comincia ad avere seppur confusamente come protagonista anche nelle cucine del Nord Italia l’olio d’oliva, con progressivo lentissimo ingresso anche dell’extravergine.

Quella dell’olio d’oliva o, ancor meglio, dell’olio extravergine d’oliva è tuttavia una presenza non ancora soddisfacente, dal momento che, come si nota osservando gli scaffali dei supermercati, la maggioranza dei consumatori è ancora orientata verso l’olio d’oliva dai costi bassissimi – attorno, se non meno di 3 euro la bottiglia da 1 litro – mentre la ristorazione anche medio-alta usa oli d’oliva non sempre di qualità, con buona presenza addirittura dell’olio di sansa.

È vero, in un numero crescente di ristoranti si vedono in sala diverse bottigliette di olio extravergine d’oliva, un certo numero delle quali con olio italiano da olive italiane, ma dietro le quinte la storia è spesso molto diversa.

Chi ama l’olio extravergine d’oliva nella ristorazione, sia in casa che fuori casa, non può ritenersi, qui nelle nostre regioni settentrionali, ancora soddisfatto: c’è, al riguardo, una diffusa ignoranza; un gran numero di persone non sa distinguere fra olio extravergine e olio vergine; tra olio da olive italiane e olio da olive cosiddette mediterranee, che sono per lo più olive prodotte lontanissimo; tra marchi italiani e marchi pseudo italiani; tra vero olio extravergine d’oliva e olio taroccato.

E se a tutto ciò si aggiunge – come denunciano diversi frantoiani italiani – una vergognosa campagna di industrie olearie internazionali, pronte a rimetterci abbassando al massimo i prezzi e, a volte, oltre il massimo possibile, pur di soffocare i piccoli oleifici di casa nostra e, ancora, la non felice situazione economica in atto, noi comprendiamo perché il vero olio extravergine d’oliva italiano, magari DOP o IGP, non riesce ancora ad imporsi non solo nel consumo famigliare ma neppure in buona parte della ristorazione delle nostre regioni C’è dunque ancora da educare; serve una sempre maggiore informazione corretta da parte dei media e una seria promozione dell’olio extravergine d’oliva, quello vero, quello italiano soprattutto, anche nelle nostre regioni settentrionali.