lunedì 31 dicembre 2012

La pinza epifanica



Il racconto di gennaio
La pinza epifanica
Con una ricetta del dolce tradizionale veneto-friulano per l’Epifania
di Giampiero Rorato

L’appuntamento è di quelli irrinunciabili e da quando s’è trasferito a Milano, oltre trent’anni prima: al rito del “Pan e Vin”, cioè all’accensione del grande fuoco che illumina la campagna trevigiana e friulana la sera della vigilia dell’Epifania, del 5 gennaio, non è mai mancato. Marco Furlan ha lasciato il paese natale per Milano subito dopo il liceo, s’è laureato in legge alla Statale, poi ha lavorato diversi anni in un importante studio d’avvocati, riuscendo, dopo i trent’anni, a mettersi in proprio con alcuni giovani colleghi. 



Col passare degli anni ha affinato la sua cultura professionale diventando un amministrativista molto richiesto. Ma la sera del 5 gennaio, vigilia dell’Epifania, torna sempre a Chiarano, paese quasi ai confini della provincia di Treviso, per partecipare al “Pan e Vin” che viene acceso vicino alla casa dove è nato, in fondo a via Dosa.

 Dopo il matrimonio è arrivato per alcuni anni con la moglie, poi, nato il primo figlio, lei era rimasta a casa, ma da quando i suoi due figlioli sono cresciuti arriva al paese natale con tutta la famiglia. Marco parte da Milano con moglie e figli nella tarda mattinata del 4 gennaio, appena tornati da una settimana in montagna e si ferma a pranzo nel solito ristorante sul lago di Garda per arrivare che è già buio in albergo a Motta di Livenza, a pochi chilometri dal suo paese.

 Il mattino successivo compiono una visita alla basilica della Madonna dei Miracoli, molto venerata in quella cittadina, quindi si dirigono a Chiarano, ospiti fissi di una bella famiglia di cugini. Nel pomeriggio i figlioli, Carlo e Michele, possono finalmente soddisfare un loro desiderio inforcando la bicicletta per un giro in paese coi loro cugini, rincasando prima del buio. Appena dopo il tramonto la campana della chiesa parrocchiale suona l’Ave Maria ed è a quell’ora che tutto il borgo si raduna attorno al grande falò costruito dai giovani in un prato lì vicino e, dopo la benedizione impartita da un sacerdote, un anziano lo accende tra i canti dei presenti.



Carlo e Michele ascoltano con curiosità quei cori mentre il fuoco divampa sempre più caldo e sempre più alto e qualcuno guarda la direzione delle faville.
I vecchi del paese, prima che le fiamme divampino, ripetono ogni anno le stesse frasi: Se le fuìve va a matina ciòl el sac e va a farina; se le fuive va al furlàn ciàpa el sac e va a pan; se le fuive va al garbìn ciol el sac e va al muìn. Ascoltando quell’intercalare incomprensibile, in uno dei primi anni che erano arrivati a Chiarano i due ragazzi avevano guardano il padre come a chiedere una spiegazione e Marco cercò di chiarire il mistero.

“C’è un’antica tradizione, aveva raccontato mentre attorno continuavano i cori e gli spari di mortaretti, secondo la quale la direzione che prendono le faville prodotte dal fuoco del “Pan e Vin” preannuncia quello che ci si deve attendere dall’annata agraria: se le faville vanno ad est, dove la mattina sorge il sole, sarà una brutta annata, per cui si consiglia di prendere un sacco e andare a cercare farina per fare il pane, essendo assai possibile che d’estate arrivino da ovest dei brutti temporali capaci di scaricare la tempesta che distrugge i campi di grano prima della mietitura e che rovina anche il raccolto dell’uva e lo stesso se le faville, spinte da un vento di sud-est, vanno verso il Friuli, che in dialetto locale si chiama “Furlàn”, probabilmente la regione d’origine dei nostri avi. 



Se invece le faville vanno verso ovest, cioè verso il lago di Garda, spinte da un vento che arriva da est, nord-est o anche sud-est, allora il raccolto sarà ricco e i contadini possono andare tranquilli al mulino con il loro frumento e il loro mais, tanto quell’anno ci sarà abbondanza di messi e tanto buon vino. Su quest’ultima previsione, aveva precisato il padre, c’è però un’altra interpretazione. Il “garbin” è il vento di Libeccio, un vento di sud-ovest e un proverbio veneziano dice che El vento de garbin quel ch’el trova el lassa. Per cui, spiegò Marco, anche se i veneziani si riferiscono col loro proverbio alle attività marinare, se la sera del “Pan e Vin” soffia il vento di Libeccio è possibile che gli eventuali temporali sorvolino le campagne senza far danni e che l’annata agraria sia ugualmente favorevole.”


I ragazzi avevano riso di cuore ascoltando quelle previsioni e allora Marco li aveva rimproverato, pur bonariamente, affermando che non c’era niente da ridere, poiché ogni anno, da migliaia d’anni, succede proprio come dicono le previsioni fatte guardando la direzione delle faville la sera del 5 gennaio. “È un dato statistico, aveva detto la prima volta e ripetuto spesso negli anni successivi, anche se non lo sappiamo spiegare. È così, guardate dove vanno questa sera le faville, tenete a mente quello che dicono le previsioni e l’anno prossimo vedrete che si sono avverate.”



Quando Marco Furlan diede questa spiegazione i ragazzi finsero di crederci ma non nascosero il loro scetticismo: “Anche tu papà sei nato in campagna, avevano affermato ridendo, e sei rimasto un po’ come loro anche se vivi a Milano.”

Ogni anno, mentre il fuoco ardeva, i canti degli abitanti del borgo aumentavano di intensità e quella cantilena dovevo avere un senso, anche se i due ragazzi non riuscivano a capirlo: E pan e vin – la pinza soto el camìn – i fasjoi par i pori fioi – e pan e vin – poenta e figadei par i nostri putei – fasioi mandolini – capon par i paroni – tabacco ai tabacconi – e vin ai imbriagoni – e pan e vin – ecc.
“Ascoltate questi canti, disse Marco, la gente dei campi, ma è meglio dire la gente di questi paesi, dal momento che sono ormai pochissimi gli agricoltori, chiede al Signore che doni pane e vino in abbondanza, cioè sicurezza di vita e, per i più poveri, ci sia sempre almeno un piatto di fagioli. Sono le invocazioni che si rinnovano, pur con qualche cambiamento, da centinaia d’anni, anzi da migliaia, perché è da più di duemila anni che qui si accendono i fuochi sacri.”
“Sono accesi da sempre in questa data?” chiese Michele?
“No, rispose il padre. Un tempo questi fuochi venivano accesi la sera dell’ultimo giorno di aprile, nella notte verso il primo maggio per celebrare un rito che oggi definiamo pagano; era in onore del dio del fuoco, Beleno, e serviva a purificare uomini e animali e a impetrare un’annata ricca di prodotti.”

Il maestoso falò illuminava tutta la zona e la gente lì attorno continuava a cantare.
Intanto, un po’ in disparte, alcune donne levarono una tovaglia che nascondeva qualcosa posto sopra un lungo tavolo e i ragazzi videro dei dolci tagliati a fette e tanti bicchieri di plastica. Intanto degli uomini portarono da una casa vicina delle grandi pentole abbastanza pesanti.
“E adesso lì?” chiese Michele.
“E adesso lì c’è la pinza e c’è il brulé. Fra poco ci andremo”, rispose il padre.
I due ragazzi guardavano incuriositi la strana cerimonia e le fiamme che lentamente diventavano sempre più fioche. La gente, intanto, cominciava ad avvicinarsi al tavolo dove c’era la pinza.
“Ma tu parlavi di Beleno. Che c’entra con questo falò?” Era Michele a chiederlo a suo padre.
La sera era mite, nel cielo brillavano le stelle e il fumo carico di faville saliva verso l’alto per poi piegare ad ovest. Fu Carlo a farlo notare a suo padre: “Ecco, esclamò, le faville e il fumo vanno ad ovest. E allora come sarà il prossimo anno?”
“Secondo la sapienza popolare quando le faville vanno ad ovest, verso il lago di Garda, il prossimo sarà un anno fortunato, almeno per quanto riguarda la campagna. Ci saranno frumento e mais in abbondanza e si avrà una ricca vendemmia e si otterrà del buon vino, sarà insomma una buona annata. Questo dice la previsione e lo vedremo alla fine dell’anno se sarà veritiera. Ma io sono convinto che sarà proprio così”, concluse il padre.
Michele attendeva sempre di sapere la storia di Beleno, ma il padre gli rispose che l’avrebbe raccontata con calma, nel viaggio di ritorno a Milano. I paesani che prima avevano quasi preso d’assalto la tavolata della pinza s’erano un po’ diradati e così Marco e la sua famiglia s’erano avvicinati e presero un pezzo di pinza ciascuno.
“Per far la festa ci vogliono sette pinze”, disse un uomo che lì vicino distribuiva bicchieri di vino caldo.
“Anche questa è buona!, esclamò Carlo, questa sera se ne sentono proprio tante!”



“Calma, ragazzi, disse Marco, ha ragione anche quell’uomo. Mangiare sette pinze è un modo di dire che nasce da un’usanza antica di queste parti, che aveva senso in passato, anche se molti, per rispetto della tradizione, continuano a mangiare diversi tipi di pinze, possibilmente proprio sette. Una volta, quando il “Pan e Vin” si faceva in ogni casa contadina, i giovanotti in età di prender moglie ma che ancora non avevano trovato la ragazza con cui fidanzarsi, andavano a “chiamare il Pan e Vin”, cioè ad assistere al fuoco e a cantare in coro in sette case diverse, mangiando in ciascuna una fetta di pinza con le persone di quella famiglia. Si presumeva che in una delle sette case visitate quegli scapoli avrebbero sicuramente trovato la ragazza da sposare. Dovete sapere che fino a poco dopo la metà del secolo scorso nelle nostre case di campagna ogni famiglia aveva tanti figli, anche dieci e più, per cui c’erano ovunque ragazze da marito e la sera del “Pan e Vin” era la più indicata per girare per le case e conoscere le ragazze da marito. Oggi è del tutto diverso, ma l’antico detto di mangiare sette pinze è rimasto.”
Carlo e Michele si misero a ridere. “Ma guarda un po’, esclamò Carlo, come era arretrata allora la gente di campagna!”

La pinza che stavano assaggiando era proprio buona, d’un colore sul giallo con la crosta marroncino, un po’ dura, pesante, ma ricca di uvetta, di fichi secchi a pezzetti, di semi di finocchio. Ne presero un’altra fettina, ma era diversa, più tenera, più molle, più gialla. Erano perplessi e guardarono la signora che gliel’aveva data. “La trovate diversa da quella che avete mangiato prima?
disse. Questa è fatta anche con la zucca, perciò è più molle dell’altra. Queste pinze le facciamo nelle nostre case, per cui sono tutte diverse fra loro.”
“Se andate avanti così ne mangiate sette anche voi”, disse il padre guardando i suoi figlioli.
“Ma questo dolce un po’ ruspante è proprio di questo paese?”, chiese Michele.
“Non solo, rispose, lo si trova un po’ in tutta questa provincia, anche nel veneziano e nel vicino Friuli. Pensate, oggi la pinza è legata alla festa dell’Epifania che celebriamo domani, ma fino a quasi la metà del secolo scorso era il dolce di Natale.”
“Non c’era il panettone?”, chiese Michele.

“No, quello è arrivato da queste parti dopo l’ultima guerra, a metà del secolo scorso. Il panettone è un dolce molto più recente della pinza che risale almeno a duemila anni fa e a diffonderlo sono stati i primi cristiani. Poco dopo la resurrezione del Signore, quando cominciarono a formarsi i primi gruppi di cristiani, questi si trovavano assieme ogni domenica e le feste più importanti erano legate ai principali avvenimenti della vita di Gesù. Ecco allora le grandi feste di Natale, di Pasqua, della discesa dello Spirito Santo, che è la festa di Pentecoste, tutte legate a cerimonie particolari. A Natale quei primi cristiani portavano nelle chiese del pane dolce. Si trattava di grandi pani confezionati con le farine di più cereali, almeno due, addolciti con granelli di uva passa, pezzi di frutta, semi aromatici e con due tagli in superficie a forma di croce. 

Venivano portati in chiesa per la Messa di Natale per essere benedetti e poi venivano donati alle autorità, ai sacerdoti, ai parenti. E il giorno di Natale nelle case dei cristiani si mangiava il pane dolce, che era molto simile a questa nostra pinza, per festeggiare la nascita di Gesù. Questa tradizione è presente in tutta Italia, anche se i pani dolci sono diversi da zona a zona, ci sono, infatti, il pangiallo, il panpepato, il panforte e altri ancora, tutti pani che, in origine, erano preparati per la festa del Santo Natale, anche se attualmente si possono trovare tutto l’anno. Poi è successo che il panettone milanese si è imposto anche nel Veneto e ha preso il posto della pinza, essendo più leggero ed elegante e, in anni più recenti, s’è diffuso anche il Pandoro originario di Verona. Ma la pinza, per fortuna, non è scomparsa ed eccola qui a concludere le feste natalizie. 

La tradizione è rimasta viva e sapendo la storia di questo dolce popolare comprendiamo anche come sia importante.”
“Bene, disse Michele, pensa te quante cose ci rivela una fetta di pinza, se si conosce la storia!”
Gli adulti sorseggiavano volentieri un bicchiere di vin brulé, anche Marco e sua moglie, mentre i ragazzi si presero un paio di bicchieri di aranciata.
“Domani troviamo questo dolce per portarcelo a casa?”, chiese Michele.
“Se trovo qui il fornaio del paese glielo chiedo subito, perché domani è festa e i forni sono chiusi”.
Il fornaio non c’era, ma i suoi cugini avevano in casa due belle pinze. Gliene avrebbero dato loro da portare a Milano e così i ragazzi furono accontentati.
La gente cominciò a sciamare mentre il grande falò era diventato un piccolo mucchio di tizzoni che rischiaravano sempre più debolmente quel pezzo di prato. Marcò e la sua famiglia seguirono i cugini e a casa trovarono la tavola imbandita e una minestra calda di tortellini.
“Per stasera basta la minestra, disse la “parona de casa”. Dopo il freddo patito lì fuori riscalda e mette a posto lo stomaco. Domani c’è un bel pranzo prima che voi torniate a Milano”, disse rivolta ai suoi ospiti.

Nella bella chiesa del paese alle dieci del mattino della festa dell’Epifania c’era la Messa solenne accompagnata dalla corale con canti ottimamente eseguiti.
Quand’erano a tavola Marcò volle sentire il parere dei suoi figlioli. “A Milano bisogna andare in duomo o a Sant’Ambrogio per una messa così bella. Non credevo proprio, disse Carlo, che in un paese di campagna si cantasse così bene alla messa. Mi è piaciuta proprio.”

“È uno dei pregi di questi paesi, aggiunse Marco. Chi vive qui può avere tutto, scuole superiori, cinema, teatro, librerie, bastano pochi minuti per arrivare in città, a Oderzo, a Motta, a San Donà di Piave. In meno di un’ora si è a Treviso e a Venezia. Ci vuole quasi più tempo dalla periferia di Milano per arrivare in piazza Duomo. Ma qui ci sono anche questi gioielli: una chiesa affollata di paesani, un coro che canta in maniera splendida, e poi il piacere di trovarci fuori della chiesa, salutarci, parlarci, stare insieme. Questo è il pregio dei paesi, dove c’è meno fretta e più umanità rispetto alla città. Per questo, aggiunse rivolto ai suoi cugini, desidero che i nostri figli conservino un legame con questo paese.”

Quel giorno c’era un pranzo davvero festoso: una minestra di riso con i fegatini di pollo, un buon bollito misto, del vitello al forno, un’inalata di croccante radicchio rosso di Treviso e, per concludere, la pinza, il tutto accompagnato dall’immancabile Prosecco e da altri buoni vini locali. Terminato il pranzo la cugina tagliò mezza pinza, la avvolse in carta stagnola e la diede alla moglie di Marco. “Questa si conserva molti giorni, disse. Così i ragazzi se la possono gustare un po’ al giorno.”
Rimasero  un po’ a chiacchierare, gli adulti presero il caffè e venne l’ora di riprendere la strada per Milano.
“Speriamo bene, disse Marco, ma troveremo traffico perché domani riprende il lavoro. Ogni anno un po’ più traffico, ma andremo piano, tanto nessuno ci sta aspettando.”

Erano già in autostrada oltre Padova quando Michele disse ai suoi che quel viaggio a Chiarano era stato proprio bello e  sperava di poterlo ripetere.
 “Certo che sì, assicurò il padre, lo faremo ogni anno. Ma ora ti sono debitore della storia di Beleno. Lo ricordate? Tutto inizia duemilacinquecento anni fa, quando arrivò in Friuli un bel gruppo di Celti, che erano un popolo di pastori che dal centro dell’Europa si erano diffusi un po’ ovunque, fino in Irlanda, in Spagna, nei Balcani. Erano pastori e vivevano d’estate in montagna, ma in autunno scendevano in pianura prima che le montagne si coprissero di neve. Potevano portare le loro pecore a pascolare ovunque, poiché la proprietà delle terre durante l’inverno era sospesa. 

I pastori andavano con le loro greggi per lo più lungo i fiumi, ma attraversavano anche prati di proprietà degli abitanti, arrivando fino al mare. Poi, a marzo, prendevano la strada del ritorno, dovendo lasciare la pianura entro il 25 aprile, data nella quale la terra ritornava ai suoi legittimi proprietari. Una volta arrivati nei loro villaggi di montagna preparavano la cerimonia di purificazione, come voleva la loro religione. In onore del dio del fuoco, Beleno, innalzavano al centro del villaggio due grandi falò, forse un po’ più piccoli di quello di Chiarano e la sera dell’ultimo giorno di aprile li accendevano e passavano tutti, uomini e animali, tra i due fuochi per purificarsi e anche per chiedere agli dei un’annata favorevole.

 E Beleno rispondeva loro attraverso la direzione delle faville, proprio come avete sentito a Chiarano ieri sera. In tal modo i pastori celti sapevano come comportarsi nell’annata che li attendeva. Questa cerimonia i Celti continuarono a farla anche dopo l’arrivo in questa regione del Cristianesimo e anche i cristiani la ripetevano, perché era bella e molto suggestiva. Allora i capi dei cristiani, probabilmente il patriarca di Aquileia e i vescovi della regione spostarono la festa dei fuochi sacri alla vigilia dell’Epifania, dicendo al popolo che quei fuochi servivano per illuminare la strada ai Re Magi che stavano andando a trovare il Bambino Gesù. Il popolo fu felice di aiutare i Re Magi e ancora più felice di conservare i fuochi sacri e di conoscere le previsioni per il nuovo anno. E così ancora oggi celebriamo la sera del 5 gennaio la festa del “Pan e Vin”, con la pinza, il vin brulé e le previsioni per il nuovo anno.”






La ricetta
(Fra le tante ricette della pinza ne presentiamo una molto semplice diffusa nell’area tra Veneto e Friuli)

Ingredienti: 1000 g di latte; 250 g di acqua, 100 g di strutto, 125 g di zucchero, 25 g di sale, 400 g di farina di mais giallo, 1200 g di fichi secchi, 250 g di uva passa, 35 g di semi di finocchio, 50 g di lievito secco, 300 g di farina di frumento.

Fa bollire il latte, con l’acqua, lo strutto, lo zucchero e il sale; aggiungi la farina di mais a  pioggia e fa una polenta cuocendo per 5 minuti energicamente, badando che non si formino grumi. Nel frattempo prepara tagliati a metà i fichi e unisci ai fichi l’uvetta, il finocchio, la farina di frumento e il lievito secco. Unisci quanto ottenuto alla polenta e mescolare bene in modo da ottenere un composto omogeneo che versi in una teglia alta 4 cm; comprimi e livella bene con le mani bagnate, poi inforna a 180° C. per 90 min.