martedì 2 ottobre 2012

La castradina


La sera del 20 novembre di qualche anno fa Roberto e Teresa Golfi, due giovani sposi lombardi, dopo aver trascorso il pomeriggio nelle Gallerie dell’Accademia, su suggerimento di loro amici s’erano fermati a cena in Calle della Regina, in un caratteristico locale veneziano dal nome evocante tempi passati: Vecio Fritolin. Uscendo dall’Accademia avevano attraversato lì davanti il ponte di legno e per Campo Santo Stefano e poi Sant’Angelo erano arrivati alle Mercerie e quindi a Rialto. Una sosta sul ponte monumentale era parsa loro obbligatoria, anche perché da lì si hanno visioni uniche al mondo, quindi per San Cassiano erano arrivati nella stretta Calle della Regina.
Il ristorante  era apparso già da fuori luminoso e ben curato; ai tavoli, benché fosse ancora un po’ presto, c’erano delle persone sedute e si sentiva un odore di cibi buoni. Entrati, i due sposi si sentirono immersi in una piacevole e calda cortesia che li mise immediatamente a proprio agio. Una giovane cameriera li accolse con un largo sorriso e li accompagnò a un tavolo in una saletta interna e subito dopo un altro cameriere portò loro due calici di spumante, che i giovani interpretarono come benvenuto. Poi un cameriere posò discretamente agli angoli del tavolo la Carta dei piatti e quella dei vini.
Dopo alcuni minuti si avvicinò una signora per ricevere la comanda. Era una signora gentile, vestita con buona eleganza e soprattutto con un luminoso e accattivante sorriso: non poteva che essere la proprietaria, pensarono.
“Buona sera, signori, siate i benvenuti, disse loro. Sono Irina Freguja, la titolare di questo ristorante e sarò lieta di potervi accontentare.”
Li guardò in silenzio mentre davano un’altra scorsa alla Carta.
Poi il marito disse: “Ci piacerebbe conoscere qualche piatto della cucina veneziana, ma siamo ancora indecisi. Sa, veniamo dalla Lombardia e a Venezia non è che si arrivi spesso.”
“Nessun problema, signori. Se lo desiderate, posso consigliarvi io, disse. Per cominciare abbiamo delle grançeole alla veneziana, oppure, meglio ancora, delle moleche fritte. Questa è la loro stagione.”
“E cosa sono?” chiese la moglie.
“Una specialità solo veneziana. Sono dei granchi verdi raccolti in laguna nel momento in cui perdono la corazza, per cui sono molli e delicati. Vengono leggermente infarinati e fritti e serviti su un lettino di polentina bianca.”
“Proviamoli!”, disse la signora.
“Erano in passato un piatto povero, spiegò la signora Freguja, e ora sono una delle leccornie più richieste dai turisti stranieri che vengono a Venezia. Poi potrei consigliarvi un risottino con delle seppioline di barena o una pasta con i fasolari, che sono dei molluschi stupendi, attualmente molto di moda in tutto l’alto Adriatico.”
“Prendiamo il risottino”, disse il marito, mentre la moglie annuiva.
“Come secondo posso proporvi il nostro “scartozzo”, lo chiamiamo così, è un fritto misto di mare, forse il piatto più tradizionale qui a Venezia. Potrei suggervene un piccolo assaggio, perché poi ho da proporvi un piatto rarissimo, che si mangia solo questa sera e domani. Poi, per ritrovarlo, bisogna attendere l’anno prossimo.”
“E sarebbe?”
“La castradina, signori, il piatto tradizionale della Madonna della Salute, che festeggiamo domani.”
“L’assaggio del pesce fritto ci piace, disse il marito, ma la castradina cos’è?”
“Se permettete faccio partire i primi piatti, poi torno e vi parlo della castradina.”
Roberto guardò la moglie. “Questa sera mi sa che mangiamo piatti mai visti.”
“Bene, fu il suo commento, se possiamo conoscere qualche autentico piatto veneziano la cosa mi farebbe proprio piacere.”
Arrivarono in tavola le moleche. I due sposi guardarono il piatto, poi si guardarono perplessi.
Il cameriere che li aveva serviti era lì a due passi. Li vide non convinti e si avvicino: “Scusate se mi permetto, disse loro sottovoce. Guardate il tavole d’angolo alla vostra sinistra. Hanno anche loro le moleche e le stanno mangiando con gusto. Sono bocconcini straordinari. Godeteli.” E si allontanò.
Iniziò il marito, mise una moleca in bocca e cominciò a masticarla. Era un’assoluta novità e gli piaceva. Allora anche la moglie cominciò a mangiarle. Ce n’erano tre per piatto e i due giovani, dopo le prime titubanze, si sentirono protagonisti di una nuova avventura gastronomica. Il cameriere aveva intanto versato un altro po’ di spumante nei loco calici. “Con le moleche ci vuole il Prosecco, disse, poi cambiamo vino, se volete.”
Gustarono un altro sorso di quel vino leggero, ricco di bollicine che trovarono proprio buono.
Il sommelier chiese che vino volessero col risotto e poi con il fritto misto.
“Questo ci piace, dissero, se è possibile vorremmo continuare con il Prosecco.”
Poi il marito chiese al sommelier: “Ci sa dire dove producono questo vino?”
“Certo, signore. Il Prosecco è il vino tipico delle colline trevigiane, lo producono tra Conegliano e Valdobbiadene e qui a Venezia è molto richiesto col pesce. Ma se ne produce anche nel veneziano e in tutto il Friuli-Venezia Giulia, ma il migliore, per profumi e fragranze è quello prodotto in collina, tra Conegliano e Valdobbiadene e attorno ad Asolo, sempre nel trevigiano.”
La moglie pensando che non sarebbero poi andati lontano, il loro albergo era infatti lì vicino, volle godersi quel vino così piacevole. “Anche noi abbiamo ottimi spumanti, soprattutto il Franciacorta e l’Oltrepò Pavese, disse il marito, ma questo è più leggero, più fruttato, si lascia bere senza fatica.”
La serata in ristorante era cominciata bene. Un ambiente caldo e accogliente, una proprietaria molto gentile e disponibile, dei camerieri premurosi e professionali. Poi quel primo piatto di granchi nudi fritti aveva rappresentato un’esperienza tutta nuova e interessante.
In attesa del risotto i due giovani si raccontarono quel ch’era rimasto loro impresso all’Accademia ed erano, diceva il marito, le storie di Sant’Orsola di Vittore Carpaccio, i teleri di Gentile Bellini con la Processione in Piazza San Marco e i trittici di Giovanni Bellini. Sua moglie era rimasta particolarmente colpita dalla Tempesta del Giorgine, dal Convitto in Casa Levi di Paolo Veronese e dalla Pietà di Tiziano, opere grandiose che da sole valgono un intero museo, diceva. Avevano acquistato il catalogo per rivedere, una volta a casa, quel patrimonio sommo di opere d’arte che solo l’Italia può vantare. Erano stati l’anno prima a Parigi e avevano trascorso un’intera giornata al Louvre e un’altra al Museo d’Orsay; erano stati in altre parti, ma quel pomeriggio era stato davvero stupendo.  
Arrivò il risotto con  le seppioline di barena. Si sentiva il profumo del mare. Avevano chiesto il risotto perché anche a casa loro lo preparavano spesso ma erano curiosi di vedere come lo cuocevano a Venezia.
“Molto buono”, disse la signora. Il marito annuì.
Era un risotto all’onda, cotto perfettamente al dente, con dei pezzetti di seppioline tenerissime e, sopra, una seppiolina intera. Le seppioline erano candidissime, quindi senza il loro inchiostro. Il sapore era delicato ma netto e deciso, probabilmente, pensò la moglie, c’è una qualche aggiunta. E lo chiese alla signora Irina che s’era avvicinata al tavolo.
“Nel cuocere questo risotto con le seppioline di barena in bianco lo teniamo morbido con l’acqua di cottura delle seppioline stesse, per cui si sente il sapore del mare, ma non di altri molluschi o crostacei. Cotto in questo modo il riso prima assorbe e poi regala tutto il sapore delle seppioline, pescate qui in laguna. Questo lo facciamo in bianco, ma, per chi lo desidera, lo facciamo anche col nero di seppia. Spero vi piaccia”, concluse.
Piaceva sì e lo si vedeva mentre lo gustavano.
“Mentre mangiate il riso, disse poi, vi racconto un po’ della castradina. Sarò breve, ma devo andare indietro nel tempo, quando le navi veneziane partivano in gruppo per i loro commerci. Le partenze avvenivano in primavera e in autunno e quando le prime tornavano partivano le seconde. Ogni gruppo di navi, perché non andavano mai da sole per paura dei pirati o comunque di brutti incontri, aveva una meta da raggiungere, dalle foci del Volga, nel Mar Nero, a Costantinopoli, ad Alessandria d’Egitto, al Nord Africa e fino alle Fiandre e all’Inghilterra. Ma tutte passavano vicino alla Dalmazia e si fermavano nei suoi porti, sia in Dalmazia che, un po’ più a sud, in Albania, oppure gettavano le ancore vicino alla riva per caricare delle mezzene di castrato, che acquistavano dagli abitanti dei villaggi di quell’area. Queste mezzene erano preparate dai pastori di quei paesi, dapprima immettendole in acqua di mare per salarle bene, poi le appendevano al sole per quasi seccarle oppure vi accendevano sotto del fuoco per affumicarle. Era il modo tradizionale degli abitanti di quei villaggi per conservare per mesi la carne senza che deperisse. Inizialmente lo facevano per loro poi scoprirono che quelle mezzene interessavano molto alle navi veneziane e così decisero di aumentarne la produzione, coinvolgendo anche i pastori dell’interno. Una volta caricate, quelle mezzene erano disposte nella stiva delle navi e rappresentavano un’ottima riserva alimentare. Se, per una qualche sfortunata ragione, una tempesta di mare o altro, le navi non potevano fermarsi nei porti a caricare derrate alimentari fresche, avevano sempre disponibile la carne di castrato. Tenete conto che allora non c’erano frigoriferi e gli alimenti se erano freschi potevano conservarsi sani per pochissimi giorni, in caso contrario le navi dovevano caricare alimenti che duravano nel tempo e le mezzene di castrato, salate, asciugate e affumicate rispondevano bene alle esigenze dei marinai.”
“L’avevano vista giusta, disse il marito. È un po’ come i salami, le carni salate, lo stoccafisso, alimenti che si conservano a lungo.”
“Proprio così e i nostri capitani di mare dei secoli passati avevano trovato dove acquistare delle carni che si conservavano integre per mesi e, quel che forse loro interessava di più, erano carni che costavano poco, per cui riempivano senza parsimonia la stiva delle loro navi. Poi, una volta concluso il viaggio e tornati a Venezia, ogni capitano di nave distribuiva ai propri marinai le mezzene avanzate che, in tal modo, arrivavano in tante case veneziane e venivano utilizzate quando lo desideravano, trasformate in piatti che la tradizione ha codificato. Queste mezzene salate e affumicate rappresentano dunque la materia prima del nostro antico piatto che è perfettamente uguale a quello dei secoli addietro. Poteva però succedere che nelle case dei marinai quella carne non venisse subito consumata, per cui a volte, aspettando troppi mesi, poteva deperire e marcire, diventando tossica se fosse stata mangiata. E fu per questo che un anno il Doge stabilì che entro il 21 di novembre, festa della Madonna della Salute, la carne di castrato portata dalle navi doveva essere tutta consumata e così ancor oggi, il 21 novembre, a ricordo dell’antica tradizione, nelle osterie e nelle trattorie veneziane e anche in tante case si prepara la castradina che io ho pronta anche per voi. E anche questo piatto si mangia solo a Venezia.”
“E come si fa?” chiese subito la moglie.
“Già vi ho detto che è carne di castrato o agnellone, salata, più o meno seccata e affumicata. Si prende il pezzo che serve e lo si mette a bagno almeno un giorno, prima in acqua bollente, poi in acqua tiepida, cambiandola un paio di volte. L’acqua calda serve sia per togliere il sapore di affumicato che il salato e anche per farla rinvenire. Poi però bisogna lavarla in molte acque e tagliarla a pezzi e farla cuocere in una pentola come un comune bollito, con sedano, carota e cipolla. In base al volume e a come si presenta si deve farla bollire un’ora circa, più o meno, quindi si lascia raffreddare e la si tiene in luogo fresco, eliminando il grasso che si è rappreso in superficie. Si rimette poi la carne in pentola con le verdure del brodo tagliate a pezzettini e abbondanti foglie di cavolo verzotto tagliate a listarelle. Si rimette sul fuoco e si lascia sobbollire fin che la carne risulta bella tenera e le verze sono cotte. A questo punto il brodo si è quasi asciugato ma il composto risulta bello morbido ed è pronto. Va mangiato con crostini di pane o, se piace, anche con polenta che si accompagna benissimo a questa carne.”
“Ma perché questo piatto lo si mangia solo oggi e domani?”
“Oggi è la vigilia di una grande festa dedicata alla Madonna della Salute la cui grande chiesa si trova verso la fine del Canal Grande, poco dopo le Gallerie dell’Accademia, dalla parte opposta a San Marco. Nel 1630 era scoppiata a Venezia, come in tutto il Nord Italia, una brutta peste e il 22 ottobre di quell’anno il Senato della Repubblica, per adempiere a un voto fatto durante la peste, deliberò di costruire, vicino alla punta della Dogana, una chiesa grande e magnifica in onore della Madonna della Salute e l’incarico fu affidato per concorso al grande architetto Baldassare Longhena. I lavori, iniziati nel 1631 terminarono nel 1687, ma da almeno dieci anni prima vi veniva celebrata con grande solennità la festa della Presentazione di Maria al Tempio, che cade il 21 novembre, con una processione che partiva dalla basilica di San Marco, presenti il Patriarca e il Doge, e arrivava alla nuova chiesa attraverso un ponte di barche gettato da Santa Maria del Giglio, nel sestiere di San Marco. Da allora, ogni anno, si ripete questa grande festa del popolo veneziano.
“Sì, ma la castradina che cosa centra?”
“Una pura coincidenza. Il Doge scelse questa data perché il 21 novembre a Venezia è festa grande e in tal modo si assicurò che la carne di castrato arrivata a Venezia col ritorno delle navi di primavera non rimanesse più a lungo nelle case, dove non c’era a quel tempo la possibilità di tenerla in luogo fresco. Ma quello che conta è che questa tradizione ha superato l’esame dei secoli, per cui la castradina è il piatto che tutti i veri veneziani gustano in questo giorno.” 
Intanto era arrivato lo “scartozzo” di pesce fritto, fragrante e profumato, davvero stupendo, fu il commento dei due sposi.
“Un assaggio di castradina?” chiese poi la signora Irina.
“A questo punto, ci sembra proprio necessaria”, disse il marito.
E poco dopo arrivarono due piatti di castradina che i giovani commensali gustarono con vero piacere.
“È una pagina di storia veneziana, commentò Roberto Golfi, siamo stati proprio fortunati ad entrare in questo ristorante.”
“E domattina, se restate a Venezia, aggiunse la signora Irina, andate al traghetto di Santa Maria del Giglio, prendete il ponte di barche e andate alla basilica di Santa Maria della Salute e così vivrete completamente questa bella festa veneziana.”