lunedì 16 luglio 2012

Le Apsirtidi


ovvero l’avventura di Giasone e degli Argonauti con la nascita delle isole del Quarnaro
rivista e raccontata da Giampiero Rorato

Molti luoghi dell’Altoadriatico sono spesso così misteriosi ancor oggi che è davvero difficile, se non impossibile leggerne le origini. I racconti tramandati dalle generazioni, le storie spesso fascinose, i segni lasciati dal tempo, le pietre scalfite dagli uomini e ancor più dai venti e dalle intemperie consentono di correre all’indietro secoli e anche millenni. Ma non di più. A quel punto, allora, soccorre il mito, che è storia che ha un suo fondamento di verità pur se raccontata come favola, dove le vicende umane s’intrecciano col volere degli dei, che non sempre sono buoni e generosi, anzi, spesso appaiono vendicativi e crudeli. I miti, a volte, non hanno spiegazioni razionali, specie quando raccontano del bene e del male del mondo che non risultano originati da cuori o intelligenze umane conosciute, arrivando da molto lontano, spesso in modo ritenuto misterioso, nascendo da cupidigie, ambizioni, egoismi inconfessati o non rivelati, da lotte per la conquista di troni che il popolo non riesce a intendere, da bramosia di potere che è debolezza presente in ognuno, ma anche da slanci generosi, da innamoramenti veri, da amicizie che superano le barriere della razza, della lingua, della religione, del colore della pelle. Andare alla scoperta delle origini e della storia di quell’angolo misterioso dell’alto Adriatico ove oggi s’incontra un arcipelago di ben trentasei tra isole, isolotti, scogli e rocce emergenti non è cosa impossibile, anche se ricerca in verità molto avventurosa che ci porta lontano, nel mito, appunto, ben sapendo che lungo i suoi tortuosi sentieri ci si può anche smarrire.
Ma è questa l’unica strada percorribile per sapere l’origine di Veglia, Cherso, Lussino, Sansego, San Pietro dei Nembi, Unie, Canidole e delle altre isole e isolotti lì intorno. Il mito ci racconta un intrecciarsi di avvenimenti inverosimili, che sembrano inventati da qualche cantastorie di paese, ma i nomi, i luoghi e i fatti narrati li troviamo in mille antichi documenti dapprima trasmessi a voce di generazione in generazione, poi raccolti, scritti e tramandati da Pindaro, Apollonio Rodio, Valerio Flacco, Strabone, Esiodo, Apollodoro, Plinio e altri ancora, tutti uomini illustri, degni di stima e meritevoli della nostra fede.
La nostra storia ha inizio in Tessaglia, nella città di Iolco.
Ci raccontano dunque gli antichi cronisti che un brutto giorno di qualche millennio fa un uomo assai cattivo di nome Pelia cacciò il fratellastro Esone, figlio di Tiro e di Creteo, dal trono di quella città che gli apparteneva per diritto ereditario e non avendo Esone la forza per opporsi al sopruso attese in silenzio il volgere degli avvenimenti, obbediente al volere degli dei. Storia di allora e di ogni tempo, perché il debole è sempre stato calpestato dal più forte così come la sete di potere pare connaturata all’indole umana, al pari dell’ambizione e dell’orgoglio, se, come ebbe a osservare Thomas Hobbes, in uno stato di natura la conflittualità è permanente (bellum omnium contra omnes) e l’uomo non si differenzia dagli animali selvatici (homo homini lupus).


Quando Esone dovette fuggire da Iolco aveva un figlio molto piccolo di nome Giasone e temendo che l’usurpatore volesse ucciderlo lo inviò di nascosto nella grotta di Chirone sul Pelio, ove rimase fino al compimento dei vent’anni. Allora, divenuto forte e coraggioso, Giasone decise di tornare nella sua città per partecipare all’annuale sacrificio in onore di Poseidone, ma con la chiara intenzione di riconquistare la sovranità usurpata al padre. Si presentò dunque al vecchio Pelia come monosandalos (uomo con una scarpa sola) reclamando lo scettro che era appartenuto a Esone e che ora era suo. L’usurpatore, ormai in là negli anni e stanco anche nel cuore, non osò opporsi, ma, non avendo ancora perduto l’antica malizia e soprattutto temendo per la sua vita, intrattenne il nipote in lunghi colloqui, convincendolo a compiere dapprima la gloriosa impresa della conquista del vello d’oro, di cui tutti i popoli della terra andavano allora favoleggiando. A Pelia un oracolo aveva annunciato che sarebbe stato ucciso da un monosandalos e per questo cercò dapprima di ammansire il nipote e poi di allontanarlo da Iolco, nella speranza di non vederlo mai più. Il vello di cui parlava il re, unico a esser costituito, per scelta divina, col metallo più prezioso, era appartenuto a un ariete che Hermes, figlio di Zeus e di Maia, aveva donato a Efele perché l’aiutasse a salvare i propri figli Frisso ed Elle, minacciati di morte. L’ariete, guidato da Hermes, portò i due giovani in salvo nella Colchide, dove più tardi Frisso sposò Calciope, figlia del re Eate, mentre Elle fu reclamata da una qualche divinità e cadde in quel braccio di mare che da lei fu chiamato Ellesponto. Quando l’ariete che era rimasto in proprietà di Frisso morì, il suo prezioso vello fu conservato in luogo inaccessibile non lontano dalla reggia, testimonianza perenne della generosità di Hermes e a imperitura memoria dell’antico prodigio.
Giasone, conosciuta la storia e pregustando la gloria che avrebbe ottenuto da simile conquista, accettò l’ardita proposta e rimandò la pretesa del trono al ritorno da quella pericolosa avventura che sicuramente nascondeva mille inganni, ma anche l’affascinava avendo egli un duplice obiettivo di riconquista: il vello d’oro già proprietà d’un greco e il trono che era stato di suo padre e ora suo per diritto ereditario. Era inoltre un’impresa che lo portava al di là delle acque, un viaggio nel mistero, iniziazione alla maturità e passaggio obbligato per la conquista del trono, cioè del ruolo regale che gli dei gli avevano riservato, come pure occasione preziosa di esperienze extraumane, rese accessibili grazie a quella straordinaria avventura iniziatica. 

Il valore simbolico del passaggio oltre le acque è una costante della cultura delle popolazioni orientali se lo si ritrova pure sulle sponde del fiume Giordano, in Galilea, dove Giovanni, cugino di Gesù, battezzava quanti volevano iniziare una nuova vita. Il battesimo - quello simbolico, amministrato da Giovanni Battista, che era immersione nelle acque limpide del fiume, e ancora di più quello cristiano, assurto a sacramento - è anch’esso rito iniziatico e attraversando le acque o immergendosi in esse, si ha una rinascita vera e non solo simbolica, un passaggio dall’uomo vecchio all’uomo nuovo, e questo è sacramento fondante per i  seguaci della religione di Gesù, poiché trasforma l’uomo che nasce ferito dal peccato originale in figlio adottivo di Dio, coerede della gioia eterna del paradiso. Proprio perché entrato in altre religioni e in altre culture, questo passaggio attraverso l’acqua è una delle espressioni più forti e caratteristiche dell’antica cultura umana e delle arcaiche religioni orientali, e lo si ritroverà con identico significato simbolico nel viaggio di Agamennone e dei suoi compagni oltre l’Egeo verso Troia e poi di Odisseo, peregrino per il vasto Mediterraneo. Già Noè, per far nascere una nuova umanità deve costruire un’arca e vincere le insidie del grande diluvio per approdare sulla terra che Dio gli ha destinato e dove la sua stirpe diventerà popolo. Più tardi, Mosè, per salvare la sua gente e liberarla dalla schiavitù dell’Egitto, deve passare le acque del mar Rosso, dopo essere stato lui stesso salvato dall’odio del faraone grazie alle acque protettrici del Nilo. Gli stessi gemelli figli di Rea Silvia, Romolo e Remo, saranno investiti dagli dei del compito di fondare una nuova città e una nuova stirpe dopo essere stati salvati dalle acque del fiume Tevere.
Per affrontare dunque un viaggio, dai più ritenuto impossibile, Giasone chiese aiuto a Hera, moglie di Zeus, sapendo l’inimicizia che la opponeva a Pelia che l’aveva insultata e, grazie al suo intervento, radunò da ogni parte della Grecia una folta schiera di giovani nobili e coraggiosi, fra cui Argo, il timoniere Tifi, Linceo dalla vista sovrumana, gli alati figli di Borea e molti altri, tutti desiderosi di dar prova del proprio valore. Argo, con l’aiuto di Atena, costruì una nave, la prima in assoluto che uscisse da mani d’uomo e quando fu completata le diede il proprio nome e i giovani eroi vi salirono diretti alla Colchide.
Il viaggio, come racconta il mito con dovizia di particolari, fu molto avventuroso. A Lemno gli Argonauti fecero la prima sosta per cercare viveri e acqua e scopersero che l’isola era abitata solo da donne maledette da Afrodite che le aveva rese puzzolenti. Abbandonate per questo dai loro uomini, esse li avevano uccisi e s’erano affidate al governo di Issipile, figlia del vecchio re Toante. I giovani greci furono dunque accolti in quest’isola e vissero inspiegabilmente con quelle donne più di un  anno, forse due, dal momento che Giasone, nonostante l’odore nauseante emanato dalla loro pelle, si congiunse più volte ad Issipile ed ebbe da lei ben due figli, Eveno e Toante.
Una seconda tappa la fecero a Cizico, che era colonia milesia, dove furono ospitati dal re dell’isola e ingaggiarono alcune battaglie contro delle bande che infestavano i monti, sconfiggendole. Passarono quindi a Cio, ove le ninfe del luogo s’invaghirono del paggio di Eracle e lo rapirono ed Eracle stesso, andato alla sua ricerca, non fece più ritorno alla nave. Un’altra sosta la fecero in Bitinia, ricevuti da Amico, re dei Bebrici, uomo dalla forza spaventosa che costringeva quanti arrivavano in città a combattere con lui a pugni, facendo schiavi coloro che perdevano. I giovani eroi designarono alla lotta Polideuce, esperto nell’arte del pugilato, e questi ebbe la meglio sulla forza bruta del re, quindi, svergognatolo, lo indusse a non molestare più gli stranieri. Una sosta rimasta avvolta nel mistero fu quella compiuta a Samotracia, ove Giasone, assieme ai Dioscuri, Eracle e Orfeo, fu iniziato ai misteri più segreti. Pian piano, mentre passano i mesi e gli anni, il giovane eroe conosce le cose della terra e quelle che restano oscure, patrimonio esclusivo degli dei. Il viaggio dunque si fa palestra di vita e di conoscenza, successione di tappe verso la conquista della maturità. E vi è in questo itinerario un insieme di momenti fra loro assai diversi, avventure umane ed extraumane, incontri con gente pavida, oracoli, uomini potenti e feroci in un susseguirsi di pericoli, di misteri, di eventi inimmaginabili che temprano il giovane eroe e i suoi compagni d’avventura. 
Partiti da Samotracia quegli intrepidi giovani si fermarono a Salmidesso, il cui re, Fineo, per qualche sgarbo commesso verso gli dei, era tormentato dalle Arpie, che lo stavano affamando. Il re,  ricevendoli, promise che avrebbe predetto loro il futuro, aiutandoli nella loro difficile impresa, se lo avessero liberato dalla maledizione che lo tormentava. Calai e Zeta, figli di Borea, essendo uomini alati, inseguirono le Arpie e, incontrata Iride, furono convinti da lei a cessare l’inseguimento con l’assicurazione che Fineo non sarebbe più stato attaccato. Il re allora aperse gli orizzonti oscuri agli Argonauti avvertendoli che per arrivare al Ponto Eusino, cioè al mar Nero, dovevano passare fra le rocce cozzanti Simplegadi e li consigliò di far attraversare, prima della loro nave, una colomba. Se questa fosse riuscita a oltrepassare indenne le rupi fluttuanti sulle onde, anche la nave le avrebbe attraversate senza danno. E così avvenne.
Dopo un lungo peregrinare per mari e per isole, tra mille pericoli, inganni, combattimenti e magie, Giasone e i suoi arrivarono finalmente nella Colchide, all’estremità orientale del Mar Nero, a sud del Caucaso. Sbarcato dalla nave il giovane eroe si presentò al re chiedendogli la restituzione del vello d’oro che era stato portato fin lì da Frisso, con la protezione di Hermes. Frisso era nipote di Eolo, quindi apparteneva alla sua stessa famiglia, perché anche suo padre Esone era nipote di Eolo. Eeta, vista la ferma determinazione di quei valorosi ma deciso a non lasciarsi trafugare il prezioso tesoro, impose loro una prova durissima, che dovevano assolutamente superare se volevano giungere al vello d’oro, sicuro che avrebbero fallito. Ordinò dunque ai nuovi venuti di domare e aggiogare due tori selvaggi che spiravano fiamme dalle possenti narici, con loro arare un campo e seminarvi i denti del drago figlio di Ares, che Cadmo, figlio di Agenore, re di Tiro, aveva ucciso per attingere l’acqua presso Cadmea. Già la storia di quel drago incuteva spavento solo al raccontarla, ma l’impresa era ancora più ardua perché dai denti del drago sarebbero sorti dei feroci guerrieri che Giasone doveva uccidere. Solo dopo, se fosse rimasto in vita, avrebbe potuto sperare di avvicinarsi al vello d’oro. Il compito sembrava impossibile anche al più forte degli eroi protetto dalle divinità più potenti, ma la figlia del re, Medea, innamoratasi perdutamente di Giasone, non ebbe timore di tradire il padre e aiutare il coraggioso straniero a superare l’ardua prova, facendo ricorso a tutti i suoi poteri magici. Solo grazie all’aiuto degli dei e alle arti di Medea, che con le sue erbe miracolose ridiede vigore all’eroe stremato dalla lotta col gigantesco drago, Giasone e i suoi compagni riuscirono a far proprio il vello d’oro, ma, al posto di fermarsi per festeggiare la grande conquista s’apprestarono a iniziare subito una nuova avventura, quella del ritorno a Iolco, ove Giasone voleva sedersi sul trono per la cui conquista aveva felicemente compiuto l’impresa creduta impossibile.
Il giovane eroe non aveva però fatto i conti con Medea, la quale, per non incorrere nella vendetta dei suoi, salì in piena notte sulla nave per fuggire con l’intrepido greco di cui s’era innamorata. Era vero amore, volontà di condividere le sorti della vita o piuttosto un fuggire dal suo presente e dalla sua natura negativa? Medea, come hanno raccontato gli antichi cronisti, era allora considerata il prototipo della donna malefica che inventa progetti malvagi, la maga che ordisce piani nefasti per chi le sta attorno. Essa era per i greci, e quindi anche per Giasone, la straniera, la donna che doveva essere evitata ad ogni costo, se si voleva difendere la propria identità e la stessa vita. Era dunque normale che Giasone considerasse Medea, donna a lui estranea e in possesso di poteri magici e malefici, una nemica da evitare e fuggire. Essa sapeva di quale considerazione era circondata e proprio per questo era salita sulla nave di nascosto, all’insaputa di tutti, nonostante le attenzioni dei marinai greci. Medea salì e restò sulla nave e fin quando rimarrà con Giasone e i suoi sarà apportatrice di morte, mai di rinascita, fino al giorno in cui, fuggendo da Corinto su un carro trainato da draghi alati, si acquieterà, come si raccontava per le strade della Grecia, accanto ad Achille nell’isola dei Beati, dove, come tramanda Esiodo ne Le opere e i giorni, “abitano, con il cuore sgombro da ogni preoccupazione, circondati dalle alte onde oceaniche, gli eroi più fortunati, ai quali un sole generoso dona tre volte l’anno abbondanza di dolci frutti”. La sua fuga dalla Colchide sulla nave Argo non è dannosa solo per Giasone, che la scopre dopo aver iniziato il viaggio di ritorno e solo perché si vede inseguito, ma per la stessa sua famiglia e, appena se ne accorse, suo fratello Apsirto allestì velocemente una nave e con un drappello di fidi guerrieri si mise a inseguire il vascello dei Greci per riprendere la sorella e riportarla a casa, onde evitare ulteriori catastrofi.
La fuga dalla Colchide è anch’essa un’avventura, una nuova peregrinazione sulle acque e oltre le acque, un viaggio che può significare passaggio nell’alterità, verso il godimento del premio che segue la vittoriosa conquista del vello, oppure castigo per aver violato la legge degli dei. È un percorso che si preannuncia lungo e avventuroso e che inizia con la nave che risale il fiume Fasi, il moderno Rion, linea di confine fra l’Europa e l’Asia. Qui, presso il fiume, nei boschi abitati dalle ninfe e dai fauni, gli Argonauti scoprirono un uccello meraviglioso, dal piumaggio ricco e variopinto, che Giasone, in omaggio al fiume presso il quale dimorava, chiamò fagiano. Ne presero molti e li caricarono sulla nave, ulteriore splendido bottino dopo il vello d’oro. Risalirono poi il più velocemente possibile il fiume finché giunsero nel golfo Persico e da qui nel mar Rosso e poi nel grande Oceano, sempre inseguiti dalla nave di Apsirto che, instancabile, continuò a rincorrere la sorella e l’amante fin nel Mediterraneo e poi lungo il mare Adriatico, puntando a settentrione, seguendo la frastagliata costa orientale.
Il viaggio verso Nord, lungo le coste dell’Adriatico, lungo “la selvosa Issa, l’amena Putheia e Korkira”, Lissa, Lesina e Curzola, inaugura percorsi che saranno poi segnati da epiche avventure cantate dal mito, vissute da intrepidi marinai Eubei, ebbri di vino e di concupiscenza, che non hanno temuto di oltrepassare il Canale d’Otranto spingendosi verso l’ignoto, nell’instancabile ricerca di merci preziose come l’ambra e lo stagno. Di qua passerà anche Ulisse e incontrerà Calipso negli anfratti interni delle Bocche di Cattaro, per essere poi gettato dai venti di Borea sulle coste del Gargano, accanto alla misteriosa dimora di Circe. Il lungo viaggio dell’eroe verso la sua amata Itaca lo portò anche nell’isola di Curzola e lo costrinse a lottare nei pressi di Spalato contro le acque e i venti procellosi di Scilla e Cariddi. Ma fu Giasone il primo a navigare questo mare infido e sconosciuto, in un viaggio irto di pericoli mortali che riuscì a superare indenne, evitando col favore degli dei le mille insidie e gli innumeri scogli nascosti dalle acque increspate che si frangono sulla costa orientale, abitata in quei tempi lontani dagli Illiri. Invece di ostacolare il suo viaggio verso Iolco, le molte isole adriatiche nascosero il conquistatore del vello d’oro alla vista di Apsirto, lasciandolo giungere indisturbato nelle tranquille acque del Quarnaro, che le alte vette che s’innalzano nella parte meridionale dell’Istria e il più interno monte Nevoso riparano dai freddi venti di Settentrione.
Ma l’itinerario, secondo qualche tardo cronista di quelle epoche antiche, potrebbe anche essere stato diverso: attraversato il Ponto Eleusino gli eroi superstiti sarebbero giunti alle foci del Danubio che risalirono fino alla Sava, giungendo in Istria per il Gorski Kotar, tornando in mare nel golfo del Quarnaro, fermandosi nell’isola di Cherso. C’è tuttavia chi afferma che quei valorosi risalirono il Danubio fino alla Drava e da qui, traendo la nave a braccia attraverso le Alpi, sarebbero arrivati per via di terra all’Adriatico, per fermarsi nel tranquillo golfo del Quarnaro, percorrendo quella che più tardi qualcuno chiamerà via argonautica,
Lo asserisce anche Marco Giuniano Giustino nell’epitome in latino delle Historiae Philippicae ove ribadisca che proprio questa fu la via seguita dagli Istri i quali, partiti dalla Colchide e inseguendo gli Argonauti, sono giunti fino ai gioghi alpini e li hanno valicati trasportando a spalla le loro navi, per scendere infine ai lidi sabbiosi dell’Adriatico. L’antico autore aggiunge che proprio grazie agli Istri sarebbero sorte Pola e il primo nucleo di Aquileia.
Giunti dunque nel golfo del Quarnaro, Medea convinse con l’inganno il fratello a scendere a patti con Giasone, ma costui, una volta che Apsirto salì sulla sua nave, incurante d’ogni promessa, lo uccise. Medea, sconvolta dal tradimento dell’amato eroe, pianse a lungo la morte del fratello e, tagliato a pezzi il cadavere, ne gettò le sparse membra in mare, sciogliendo anche i fagiani perché gli facessero compagnia per l’eternità. E dalle membra accolte dall’abbraccio dei flutti gli dei fecero sorgere le isole Apsirtidi: Veglia, Cherso, Lussino e le altre trentatré isole, isolotti e scogli dell’arcipelago. Isole dunque che sarebbero state volute dagli dei a perenne memoria di antiche vicende, di eroiche imprese, di odi e amori divini e umani, a lungo cantati dai poeti di tutti i paesi mediterranei. Giasone continuò poi il suo viaggio restando ancora per qualche anno con Medea, così come proseguì verso nuovi lidi l’antica saga degli Argonauti, ma intanto il primo dei tragici destini si era compiuto.
Chi era dunque Apsirto, al di là di quello che già conosciamo e cioè il figlio del re Eeta, il fratello di Medea, l’erede d’una stirpe reale, d’un trono e d’un patrimonio, per difendere i quali aveva intrapreso l’impari sfida con Giasone, il protetto di Hera? Forse la vittima predestinata in una vicenda che aveva unito destini umani e divini e che doveva concludersi necessariamente con un sacrificio umano? La vittoria di Giasone, la sua possibilità di tornare a Iolco per cingere la corona del comando si completa dunque nell’antico mito con l’uccisione di Apsirto e il nuovo regno si fonda conseguentemente su un inganno e un omicidio. Il mito approva questo delitto, come se Apsirto fosse il capro espiatorio d’un disegno ultraterreno e invita a condividere l’idea, o, piuttosto, l’illusione, che senza questo capro espiatorio, colpevole di voler ostacolare se non proprio fermare il viaggio oltre i continenti e oltre le acque di Giasone, la grande impresa compiuta con l’aiuto degli dei per riportare il legittimo erede sul trono di Iolco sarebbe fallita.
In un altro angolo del Mediterraneo orientale, un piccolo popolo, quello che Mosè aveva liberato dalla schiavitù degli Egizi, scrive negli stessi secoli una storia del tutto diversa. Per questo popolo, scelto da Dio in Abramo per diventare protagonista della nuova storia, non è affatto vero che l’intervento d’un capro espiatorio sia utile ed efficace, come se esso fosse comunque colpevole od ostacolo sulla via della verità. Nei libri sacri di questo popolo era scritto che i capri espiatori della loro storia non erano colpevoli di nulla. Non lo era Abele ucciso dal fratello Caino; non Giuseppe figlio di Giacobbe venduto dai propri fratelli; non Giobbe, il “servo sofferente”. Non lo fu Cristo, crocifisso sul Golgota dai propri compatrioti. Per questo popolo, diverso da ogni altro e da cui ebbe origine una cultura e una civiltà tutta nuova che permane tuttora, quella giudaico-cristiana, la violenza non è mai riscatto, non fonda né giustifica il diritto, non apre le porte alla verità. La cultura e più ancora la religione ebraico-cristiana demistificano il fenomeno della violenza e del capro espiatorio che sono espressioni di debolezza o di ebbrezza singola o collettiva, quindi di irrazionalità e non, come ritengono le religioni arcaiche, i miti antichi e, purtroppo, qualche popolo e governo dei tempi attuali, fonte del diritto e sovrana regìa della storia umana.
Ma questo si è conosciuto dopo, secoli dopo la morte violenta di Apsirto. E, pur a distanza di millenni, non è inutile una sosta per riflettere sulle vicende di Giasone e di Apsirto, che hanno, come esige il mito, qualcosa di utile anche per noi che  abbiamo iniziato a vivere il terzo millennio dell’era moderna.
E allora ci chiediamo: come possono delle isole così straordinarie, che l’antico mito fa nascere dalle membra di Apsirto, continuare a nascondere nel loro seno l’antica tragedia senza ricordare alle generazioni che passano quale lungo e doloroso cammino sia riservato agli uomini che intendono fuggire al loro destino, ma più ancora rigenerarsi o riconquistare il posto che loro spetta nella scena della storia? E quel mito che comunque non chiarisce fino in fondo il substrato vero dell’antica vicenda è solo memoria di esperienze superumane più tragiche che gloriose o invito a considerare la vita come viaggio triste e doloroso in mezzo a mille pericoli, dove anche l’amore mal inteso o mal finalizzato può generare la morte? Qui davvero l’umano e il divino si congiungono, anche se manca ancora il tocco della grazia ignoto a Giasone e agli altri protagonisti della sua avventura, ma questo lampo di luce folgorante che muta i colori della vita, donandole prospettive del tutto nuove, arriverà anche in queste isole, con l’avvento di quella nuova religione che aveva iniziato il suo cammino dal Golgota, come ricordano da secoli i rintocchi delle campane che da un’isola all’altra si salutano ogni giorno, al sorgere e al tramontare del sole.
Sono queste delle isole davvero splendide che conservano ancor oggi il primitivo aspetto, tappezzate d’erbe cariche dei profumi mediterranei. Qua e là, sui colli e nelle baie, sorgono borghi e villaggi di contadini e pescatori, di cui si scorgono da lontano gli antichi campanili, e tra le masiere e gli uliveti le greggi pascolano tranquille incuranti del largo roteare dei grifoni, lassù nell’azzurro; i dolci fianchi dei colli sono ricoperti d’ulivi, sacri a Minerva e le basse vette, arrotondate dal vento di Borea, con ancora le tracce dei preistorici castellieri, sembrano conservare la silente memoria delle invisibili dimore degli antichi dei, che qui, lontano da ogni frastuono, hanno probabilmente ritrovato un luogo ideale per far rinascere, tra i candidi nembi, le fastose regge dell’Olimpo ove, banchettando con miele e ambrosia, forse si raccontano ancora le favole fantasiose di Giasone, dei suoi valorosi compagni, di Medea e dello sfortunato Apsirto che qui riposa in eterno.