sabato 11 dicembre 2010

L'olio d'oliva nelle terre della Serenissima

il suo arrivo e il lento passaggio dalla città alla campagna

Convegno su “L’olivo e il suo olio”

Cappella Maggiore 11 dicembre 2010

Conversazione di Giampiero Rorato

L’olio d’oliva fa la sua comparsa a Venezia in epoca molto antica, dal momento che i Romani avevano provveduto a diffondere la coltivazione dell’ulivo nelle terre da loro conquistate, quindi anche nella Decima Regione Augustea “Venetia et Histria”.

Probabilmente i Romani, già esperti nella coltivazione dell’ulivo e nella produzione dell’olio, diffusero queste piante in aree vocate: nel nostro territorio sicuramente nei Colli Euganei, nei Colli Berici e nelle colline della lunga fascia pedemontana che va dal lago di Garda al Collio e al Carso Triestino, passando naturalmente per il Trevigiano e il Pordenonese, anche se in certe aree l’ulivo già c’era, come attorno al lago di Garda e nelle valli veronesi, così come già c’era in Istria con produzione di ottimo olio.

Per quanto riguarda in particolare l’Istria, a confermarlo è il poeta latino di origine spagnola, Marco Valerio Marziale (40-104) in suo epigramma (II, 63), in cui scrive: “Uncto Corduba laetior Venafro – Histria nec minus absoluta testa” (che significa: La città di Cordoba, in Spagna è ricca più dell’oleosa città di Venafro, in Campania, famosa a quei tempi per il suo olio, e certo non meno perfetta d’una giara d’olio dell’Istria).

Sappiamo poi che nel ‘500, al tempo dei regni romano-barbarici, Cassiodoro (490-583), gran ministro di Teodorico a Ravenna, come lui stesso scrive in una lettera al Canonicato veneziano per chiedere vini dolci, si faceva portare l’olio dell’Istria poiché lo considerava degno della mensa del re.

Per avere un documento più legato a Venezia dobbiamo attendere il Libro per Cuoco, un trattato di cucina di 135 ricette redatto da autore anonimo alla fine del XIV secolo. In quest’opera si trova che nelle case aristocratiche veneziane – il ricettario era per loro, non certo per il popolo – per condire si usava il lardo e lo strutto mentre assai più raro risulta l’impiego dell’olio, anzi, del bono oglio, lasciandoci intendere l’estensore del trattato che nelle migliori case di Venezia si usava un olio d’oliva migliore di quello in uso nel resto dell’Italia Settentrionale.

Va ricordato, a tal proposito, che a differenza di Milano e di Torino e delle rispettive aree, il Gonfalone di San Marco sventolava fin dal Mille, dal tempo della spedizione del doge Pietro Orseolo II, sull’Istria e su parte della Dalmazia e le navi veneziane intensificarono i loro viaggi in Levante, andando ad acquistare prodotti in Grecia e anche in Puglia, per cui l’olio d’oliva a Venezia non mancava proprio.

Dall’esame delle ricette e da altri dati disponibili è stato calcolato che sul finire del Medioevo a Venezia il lardo o comunque il grasso animale era impiegato nel 42% delle ricette e solo il 7% prevedeva l’uso dell’olio d’oliva, mentre il 51% non prevedeva condimento.

L’olio d’oliva quindi c’era, ma solo nelle case del più ricco patriziato, mentre borghesi e popolani continuavano a cuocere e a condire con il lardo, la sugna e il burro.


L’olio per le attività produttive veneziane

Fin dalla sua fondazione Venezia deteneva il monopolio del sale e commerciava in grano, vetro lavorato e tessuti preziosi, mentre acquistava dalla terraferma molto bestiame, soprattutto bovino. Grazie al citato trattato e ai documenti d’archivio relativi al commercio, abbiamo numerose notizie sui prodotti agroalimentari presenti a Venezia in quei secoli lontani, acquistati e anche commerciati, molto meno notizie, invece, ci sono state tramandate per quanto riguarda la cucina veneziana dal Medioevo al Rinascimento, i suoi piatti, le tecniche di preparazione e cottura; infatti, oltre al trattato prima citato – il Libro per Cuoco – pur molto importante, non troviamo in questo periodo nessun altro ricettario veneziano, mentre abbondavano nell’Italia meridionale.

Per l’argomento poi di cui stiamo parlando, l’olio d’oliva, ci sono interessanti notizie nei documenti del tempo, ma gli storici non hanno molto approfondito il tema dell’olio d’oliva pur importante per la cucina e l’industria veneziana. Sappiamo tuttavia che l’olio non serviva solo per usi alimentari ma anche e soprattutto per le attività produttive, in particolare due: la produzione di sapone e la lavorazione della lana.

Per quanto riguarda il sapone è sufficiente ricordare che 1/3 in peso del prodotto finito era costituito dall’olio.

Dai documenti d’archivio risulta, ad esempio, che nel 1489 Venezia aveva il monopolio della produzione di sapone, che vantava un'indiscussa superiorità rispetto ai prodotti concorrenti, in termini di bianchezza e durezza, tanto da proibirne la produzione al di fuori della città, concentrandone l'attività nei suoi soli saponifici, che, agli inizi del 1600 erano 17 con 40 caldaie attive.

L'altro settore produttivo, non meno significativo nel quadro delle industrie veneziane del tempo, erano i lanifici, in grande espansione nel corso del 1500. Nel processo di cardatura era indispensabile l'olio, sebbene non della stessa qualità di quello usato nell'alimentazione.


Un passo indietro

Abbiamo ricordato l’Istria e alcune zone di rifornimento da parte dei veneziani, e che l’ulivo e quindi l’olio, erano arrivati a Venezia e nel Veneto da Roma e dai territori appartenenti a Roma.

Ma da dove arriva l’ulivo? Credo che un rapido passaggio storico possa risultare utile al nostro esame.

Ritrovamenti preistorici dimostrano l'esistenza del progenitore dell'ulivo in Italia sin dal periodo terziario, circa un milione di anni fa. A Mongardino, nei pressi di Bologna, sono state scoperte foglie fossili. Noccioli di olive sono stati rinvenuti in insediamenti di epoche diverse: a Mentone sulla riviera francese (risalenti al paleolitico, 35000-8000 a.C.), a El Garcel in Spagna (risalenti al neolitico, 8000-2700 a.C.), sul Lago di Garda (risalenti età del bronzo, 1500-1000 a.C.).

Al neolitico, risalgono rinvenimenti di Torre a Mare e Fasano a sud di Bari (5000 a.C.) che confermano come in questo periodo in Italia (7000-5000 a.C.) le olive costituivano già alimento umano.

Grazie ai numerosi rinvenimenti archeologici, ai racconti tradizionali e ai testi religiosi, possiamo affermare che le origini dell'ulivo e la sua coltivazione risalgono a circa 6/7000 anni fa in Asia Minore, probabilmente nei territori che si estendono tra il Caucaso, le pendici ovest dell'altopiano iraniano e le coste mediterranee della Siria e della Palestina.

La diffusione dell'ulivo e della sua coltivazione avvennero gradualmente, prima in Egitto e in seguito, grazie all'intensa attività mercantile dei Fenici, tra il IX e l'VIII secolo a.C., in Grecia, diventando uno dei pilastri della civiltà ellenica, infine in tutto il bacino mediterraneo.

E, nei secoli successivi, dalla Grecia la coltivazione dell’ulivo è salita verso Nord, lungo la costa adriatica, quindi lungo la Dalmazia, fino all’Istria, estendendosi anche nelle isole della costa orientale dell’Adriatico fino al Quarnaro.

Nel contempo, con la nascita della Magna Grecia nell’Italia meridionale, l’ulivo divenne, assieme alla vite, la pianta più coltivata in tutto il nostro meridione.

Ed ora una curiosità. Come si estraeva l'olio a quell'epoca? Nell'isola di Santorini è stato trovato un frantoio antichissimo, risalente all'età micenea (1600-1000 a.C.). È composto da una pietra concava dove si deponevano le olive, e da una pietra convessa, che cadendovi sopra le schiacciava. La pasta di olive così ottenuta veniva immessa in cesti sovrapposti, che premendo uno sull'altro lasciavano fuoriuscire un liquido composto da acqua di vegetazione e pasta di olive. Da questo, dopo un periodo di decantazione, sarebbe poi affiorato l'olio. Questo e analoghi sistemi molto semplici precedettero l'invenzione della macina.


L’olio nella Bibbia

Secondo una antica leggenda israeliana, il primo olio sarebbe stato prodotto da una pianta d’ulivo grazie a un seme caduto dal paradiso terrestre sulla tomba di Adamo, in cima al monte Tabor. Un dono di Dio, dunque, per gli ebrei, nella cui cultura l'unzione assume, come si legge nell’Antico Testamento, un significato religioso, una sorta di investitura, riservata a re e sacerdoti e il significato religioso l’olio lo ha conservato anche nella religione cattolica ed è usato, per esempio nel somministrare alcuni sacramenti, come il Battesimo, la Cresima e il sacramento dei malati.

Come non pensare poi, a proposito di pace ritrovata e di speranza, al ramoscello d’ulivo che la colomba recò nel becco a Noè alla fine del diluvio? L'olio, come il vino, è sempre stato qualcosa di più di un semplice frutto della terra.

Il cristianesimo si appropriò, infatti, di tutte le immagini positive legate all'ulivo e all'olio, trasformandolo in uno dei primi simboli della nuova religione.

Come sappiamo, i primi cristiani avversarono il culto pagano degli alberi, ma l'ulivo, che pure era l’albero sacro a Minerva, ne uscì invece rafforzato e i suoi rami sono benedetti in tutte le chiese la domenica che precede la festa di Pasqua, cioè nella “Domenica delle Palme”.

E il Vangelo ci dice pure che Gesù trascorse le sue ultime ore in preghiera nell'uliveto dei Getsemani, che è ancor oggi vegeto e visitabile, e vanta alcune delle piante d'ulivo più antiche del mondo.

Va poi notato che quando la civiltà romana raggiunse il suo culmine, nel primo secolo dell’era moderna, l'olivicoltura era una delle branche più sviluppate dell'agricoltura.


Da Roma all’età moderna

Con l'affermarsi dell'Impero Romano l'olivicoltura raggiunse, infatti, la massima estensione e intensità, grazie all'introduzione di avanzati sistemi di ammasso e distribuzione dell'olio. E ancor prima dell’impero, in epoca repubblicana, e precisamente a partire dal secondo secolo a.C l’ulivo era stato introdotto dalle legioni romane nella nostra regione.

Risale a questo periodo la prima classificazione delle piante e dei vari tipi di olive commerciabili e Gaio Plinio il Vecchio distingue ben 15 diverse specie di ulivo. Gli scambi commerciali, sotto i Romani, erano regolati da una specie di borsa, la cosiddetta "arca olearia" e il trasporto dell’olio veniva assicurato da una flotta navale apposita. Con la caduta dell'Impero e in seguito alle invasioni dei Barbari che provocarono gravi danni all'agricoltura, l'olivicoltura quasi scomparve e gli oliveti vennero soppiantati da boschi incolti che s’andarono estendendo in tutte le aree non più coltivate.

Nel Medioevo l'olio di oliva divenne assai raro e prezioso, anche nella nostra regione. I pochi oliveti rimasti si trovavano soprattutto in alcuni conventi e feudi fortificati, e la destinazione dell'olio di oliva era principalmente quella liturgica, dal momento che la cucina era tornata pressoché totalmente al grasso animale.
Verso l’8°-9° secolo, grazie soprattutto ai monasteri benedettini, presenti anche nella terraferma veneto-friulana, l'olivicoltura cominciò nuovamente ad affermarsi con la creazione di oliveti di grandi dimensioni e con un ulteriore slancio commerciale che raggiunse l'apice durante il periodo rinascimentale, nel quale il consumo d'olio di oliva conobbe un lento ma costante rifiorire, soprattutto nel centro-sud d’Italia, ma anche, seppur assai meno, nelle aree vocate del Nord.

Dal 1600 in poi la sua diffusione ebbe un notevole incremento e gli oliveti divennero una peculiare caratteristica del paesaggio italiano e particolarmente della zona centro-meridionale.

Risale a questo periodo una delle innovazioni tecnologiche più importanti nel settore dell'olivicoltura: l'applicazione della forza idraulica ai frantoi che sostituì le macine, fino a quel momento azionate a braccia o con l'ausilio di animali.
Ma, proprio all’inizio del ‘700, e precisamente nel 1709, una terribile e lunga gelata invernale fece morire quasi tutte le piante di ulivo esistenti nelle terre della Serenissima, per cui si ebbe un generale ritorno al lardo e alla sugna, specialmente nelle campagne, dove potevano ricorrere all’olio, naturalmente importato, solo, e anche loro non sempre, i patrizi veneziani quando arrivavano per la villeggiatura e pochi ricchi borghesi, proprietari terrieri o grossi mercanti.

Oggi, l'area colturale dell'olivo va dal 30° al 45° parallelo di latitudine Nord, su una fascia a clima temperato.

Queste caratteristiche sono presenti in tutta la fascia costiera mediterranea ed in particolar modo in quella italiana, tanto che gli esperti internazionali affermano che le migliori olive sono quelle che crescono nella Penisola Italica, dove la varietà dei terreni e le efficienti tecniche produttive permettono la realizzazione di un prodotto di qualità, decisamente superiore alla media mondiale.

In Italia, la coltura dell'olivo, si estende su circa 1.180.000 ettari; le regioni che detengono il 60% della superficie nazionale coltivata ad olivo sono la Puglia la Calabria e la Sicilia.


Torniamo a Venezia

Focalizziamo ora la nostra attenzione su Venezia dove, tra Medioevo e Rinascimento l’olio importato in città era un prodotto non solo utilizzato nelle case del patriziato e, come abbiamo visto, nell’industria del sapone e della lana, essendo in quantità tale da poter soddisfare una domanda che arrivava anche da altri Stati, cioè dall’estero. Per questo motivo l’olio venne posto sotto controllo dalle autorità annonarie veneziane, in linea con la tradizione legislativa della città e ciò per due motivi: innanzi tutto perché non mancasse a Venezia, quindi per ottenere un guadagno statale, mediante tassazione sull’esportazione

Già nel 1302 la Repubblica aveva stabilito che solo il 50% dell’olio importato poteva essere esportato, la metà, quindi, doveva restare a Venezia in magazzini appositi controllati dai Visdomini della Ternaria, ritenendo che quella quantità bastasse alle esigenze alimentari e industriali della città. Tuttavia, nel corso del 1300, quasi sicuramente per un maggior afflusso di olio, il permesso di esportazione venne esteso ai due terzi e addirittura, per un periodo, ai tre quarti della quantità importata, pur restando a discrezione dei Ternieri (coloro cioè che erano incaricati di vigilare sull’olio) limitare tale commercio se lo richiedeva il fabbisogno della città.

Le importazioni dovevano quindi comunque soddisfare le richieste interne e alcuni anni prima della metà del secolo, essendosi verificato un minor afflusso di olio, le esportazioni rappresentarono solo il 10 % delle importazioni. E nel 1700 non vi furono addirittura più esportazioni, a causa di un forte ridimensionamento dei commerci della Repubblica, anche nelle importazioni, ragion per cui l'olio, non più sufficiente al bisogno interno, risultò fra i prodotti che raggiunsero i più alti valori monetari.


Le aree di approvvigionamento

Ma dove era acquistato l’olio importato a Venezia? Nel corso del Cinquecento ad essere maggiormente importato fu l'olio pugliese, considerato il migliore per qualità e durata nel tempo e il più richiesto dai mercati internazionali, per cui la capacità di controllare tale olio in termini politico-economici era la dimostrazione della forza di una potenza commerciale, come era appunto Venezia a quel tempo.

Nel 1700 la situazione risulta però ribaltata. L'olio pugliese sfugge in larga misura al controllo veneziano, cadendo nelle mani delle maggiori potenze coloniali dell'epoca, Francia, Inghilterra e Olanda.

Altri concorrenti si erano poi affermati nell'Adriatico durante il ‘700, l’ultimo secolo della storia della Repubblica di Venezia: Ferrara e Trieste innanzitutto, i cui commercianti sottraevano ai consumi e alle esportazioni di Venezia un articolo molto ricercato, dato anche che Venezia s’era ridotta a poche navi e che i ricchi patrizi avevano trasferito i loro interessi dal commercio all’agricoltura, avevano infatti acquistato negli ultimi due secoli vasti appezzamenti in terraferma e fatto costruire splendide dimore di campagna, le ville venete che noi conosciamo.

I tempi migliori di fine Cinquecento - quando negli anni 1592-98 si erano importati in media annualmente circa 71.000 quintali, dei quali solamente l'11% era riservato all'alimentazione, il 50 % veniva riesportato e la restante parte, il 39%, andava a confluire nella lavorazione del sapone e della lana – quei tempi, nel ‘700, apparivano purtroppo un lontano ricordo.

Come sappiamo con la battaglia di Agnadello del 14 maggio 1509, persa dai Veneziani, ebbe inizio la lenta decadenza della Repubblica e la situazione economica si fece pesante soprattutto in terraferma.

Sappiamo tuttavia che Venezia, come ci conferma ampiamente Carlo Goldoni nelle sue commedie, risultò sempre ben fornita di generi alimentari, fra i quali c’era l’olio d’oliva che veniva considerato fondamentale per la cucina dei patrizi.


La decadenza della Repubblica

Abbiamo detto poco fa che le principali importazioni d’olio della Repubblica provenivano dalla Puglia, ma queste, come abbiamo visto, andarono inesorabilmente diminuendo, a partire dai primi decenni del ‘600.

Per continuare ad avere l’olio necessario Venezia si rivolse allora alle produzioni olearie di Istria, Dalmazia, Albania, Corfù, Zante, Cefalonia e Candia. Queste aree che erano o erano state veneziane, andavano a fiancheggiare con il loro olio le produzioni esistenti attorno al lago di Garda e sulle colline pedemontane, che già sul finire del Medioevo avevano acquisito una certa importanza, ma che non risultavano certo sufficienti a soddisfare il fabbisogno neppure della popolazione ricca della zona che preferiva da sempre l’olio al grasso animale.

D'altro canto, la pesantezza del prelievo fiscale veneziano andava a congiungersi a una situazione economica e commerciale che non cessava di deteriorasi. Credo non serva aggiungere che Venezia nei suoi due ultimi secoli aveva disperato bisogno di entrate per far fronte anche solo agli stipendi del personale statale,

Ricordiamo che nel 1630 Venezia e il suo territorio furono colpiti dalla peste, dalla quale l'economia veneziana si sarebbe ripresa con molta difficoltà e mai del tutto, e in ogni caso con delle ristrutturazioni profonde, che avrebbero riaperto i giochi tra la città di Venezia e le podestarie della terraferma; ma per quanto riguarda la presenza e l’uso dell’olio in terraferma, salvo nelle zone di produzione, continua ad esserci molta penuria.

Dopo il 1630 la situazione economica, già in declino, si fa progressivamente sempre più difficile per l'affievolirsi delle capacità fiscali e amministrative della Repubblica, nel far fronte a disordini crescenti nell'importazione e nella circolazione del prodotto all'interno dei confini dello stato; dall'altro da un oggettivo rarefarsi del prodotto, fenomeno che non poteva non determinare tutta una serie di ripercussioni.

Il primo aspetto, vale a dire le crescenti difficoltà del fisco veneziano, è certamente da ricollegarsi all'eccessivo numero di dazi all'importazione, all'uscita da Venezia e a seconda della città di destinazione, nonché alla loro pesantezza. Risultato fu che l'olio veneziano divenne sempre più caro e meno competitivo rispetto all'olio che giungeva di frodo dalle regioni confinanti, in particolar modo dal Ferrarese, e che circolava di contrabbando lungo il Po e gli altri fiumi che segnavano i confini dello stato.

Per quanto riguarda la disponibilità del prodotto, la netta impressione che si ricava dai documenti è che si era di fronte, specie nel corso del 1700, al moltiplicarsi di tutta una serie di succedanei dell'olio d'oliva, di tutti i tipi e qualità - dall'olio di lino all'olio di noci, dall'olio di ravizzone a quello di colza - sulla scia peraltro dell'espansione di questi oli come avveniva in altri paesi europei (l'olio di colza, ovvero colsat, ad esempio, giungeva dai Paesi Bassi).

E' ormai accertato che nel corso del Cinque e Seicento l'olio d'oliva non era presente o lo era molto scarsamente – usato in particolari circostanze e solo per certi piatti - nelle case degli abitanti della terraferma e fra le mura domestiche di città piccole e grandi della Serenissima. Tuttavia, ciò che appare certo è che nel corso del 1700 si facesse fronte all'incremento demografico e a una domanda crescente del prodotto, specie nelle case della piccola nobiltà di campagna, in quelle dei professionisti e dei mercanti, con l'offerta di oli di seconda qualità.

Si era di fronte in altre parole a quei mutamenti alimentari di media-lunga durata, le cui ripercussioni in terraferma dureranno fino alla prima metà del secolo scorso, cioè fino all’ultimo dopoguerra, con ripercussioni ancora presenti, tanto che nei supermercati l’olio d’oliva di incerta origine la fa ancora da padrone rispetto all’olio extravergine di origine italiana.

Dopo la famosa peste del 1630 si assiste, ad esempio, ad una espansione della coltivazione del mais per uso alimentare e la polenta andò progressivamente sostituendo il pane e, spesso, nelle famiglie più povere, ogni altro cibo, dando luogo al triste fenomeno della pellagra che durò fino alla prima metà del secolo scorso.

E, sempre da allora, si ebbe in forte incremento nell’acquisto dello stoccafisso norvegese, poi da noi chiamato alla spagnola, cioè baccalà, dal momento che costava molto poco, tanto che il Veneto continua ad essere ancor oggi e di gran lunga il primo cliente dello stoccafisso delle Lofoten.

Sempre nel ‘700, data la situazione abbastanza triste della Repubblica, si sviluppò e si estese il contrabbando, mentre le province più lontane da Venezia (Brescia e Bergamo soprattutto, ma anche Verona e Rovigo) sfuggirono all'obbligo di approvvigionarsi a Venezia. Le statistiche che abbiamo ci dicono che sul finire del ‘700 Venezia, con circa 138.000 abitanti, poteva contare su ben 15 libbre di olio pro capite all'anno (ca. 9 litri), contro un consumo di sole due libbre di olio (l. 1,2) pro capite in Terraferma che contava più di due milioni di abitanti.

Tuttavia, queste grandezze raffrontate ad altre realtà europee – come Valladolid, in Spagna, nel secondo Cinquecento, dove ogni abitante aveva a disposizione ca. due litri d'olio all'anno - ci mostrano un quadro di relativa abbondanza. In ogni caso la sproporzione tra Venezia e il resto della sua terraferma appare evidente.


L’ultima evoluzione

Tutti i documenti e le statistiche relative ai secoli passati ci confermano che a Venezia l’olio d’oliva c’è sempre stato e che veniva usualmente impiegato nelle cucine veneziane, spesso assieme al burro, ma soprattutto era presente nei palazzi del patriziato, dei burocrati e dei ricchi mercanti, non certo nelle case del popolo minuto. Ci dicono pure che i patrizi veneziani quando arrivavano nelle ville di campagna per la villeggiatura estiva continuavano ad usare nelle loro cucine l’olio d’oliva, assieme al burro.

Sappiamo pure che in diverse aree vocate della terraferma veneziana si coltivava da sempre l’ulivo, e che ciò avveniva, dopo l’epoca romana, inizialmente nelle proprietà dei monasteri, poi in quelle dei patrizi o comunque di grossi proprietari di terre in collina, i quali immettevano il prodotto ottenuto, disponibile alla vendita, nei circuiti commerciali controllati dallo Stato.

Sappiamo pure che la presenza degli ulivi in terraferma subì un duro colpo con la gelata dell’inverno del 1709.

E allora, quando arrivò l’olio nelle case dei contadini nel nostro territorio? Quando è che dai ricchi patrizi e dagli altri possessori di un alto censo che potevano acquistare l’olio impiegarlo nelle loro cucine, questo olio arrivò nella campagna veneta, nelle case al di fuori delle ricche ville dei veneziani?

La risposta è molto semplice. L’olio d’oliva è arrivato nelle case di campagna come anche in quelle delle città venete di terraferma, assieme alla bistecca, vale a dire, salvo le solite eccezioni, solo cinquant’anni fa. È dunque una conquista recente che risale solo alla seconda metà del secolo scorso.

Ora i tempi sono cambiati. Una più diffusa consapevolezza del valore e dell’importanza dell’olio d’oliva, e soprattutto dell’olio extravergine di oliva, comincia a verificarsi a partire dagli scorsi anni ’70 ed è solo negli ultimissimi decenni che si assiste in Italia ad un fiorire di iniziative, anche al Nord, anche in Veneto e in Friuli Venezia Giulia, tese a valorizzare l’olivicoltura con l’aumento delle aree coltivate ad uliveto e una più corretta conoscenza e un più esteso impiego dell’olio extravergine d’oliva.

C’è ancora molta strada da percorrere, ma è chiaro che l’olio d’oliva, quale ingrediente fondamentale delle nostre cucine e della nostra alimentazione, è una conquista che parte dal basso, da iniziative come questa, e come le tante altre che si celebrano in tutta Italia per far conoscere, apprezzare ed impiegare sempre più questo gioiello agroalimentare che ha in Italia il sua habitat ideale.

Prima tuttavia di concludere, mi sia permessa una notazione e un invito.

In Italia, metà dell’olio che troviamo in commercio non è italiano e, quando non se ne consoce l’origine non si conosce neppure come e dove sono state coltivate le piante di ulivo, come sono state trattate, come è stato prodotto quell’olio, anche se in molti casi si tratta di buon olio extravergine.

Poi il costo. Da indagini attentamente condotte anche attraverso una rivista che dirigo da oltre vent’anni, il costo medio di un litro d’olio extravergine non può essere inferiore agli otto euro circa. Se ne troviamo che costa meno è da farci non uno ma più pensierini. Se costa di più, allora entra in gioco la legge del mercato, per cui come aumenta la richiesta di un prodotto ne aumenta anche il prezzo.

Ciò premesso, l’invito è ad usare sempre olio extravergine d’oliva, scegliendo fra gli ottimo prodotti Dop italiani e quelli prodotti nel Veneto sono, come ormai è ben noto a tutti, fra i migliori in assoluto.